La pari dignità dei due schieramenti bellici senza la necessità di distinguere in buoni e cattivi, ma ognuno con le proprie ragioni e con le proprie contraddizioni. Il film di guerra che diventa progressivamente spirale orrorifica e fantasmatica di identificazione nell’altro, di senso di colpa e di smarrimento esistenziale. Il parallelismo di allenamento, limiti e disciplina del corpo fra l’esercito e la danza antica e moderna. Il concreto e l’astratto, fra le immagini della telecamera termica che diventano pura macchia di colore e lo scontro fisico che legherà per sempre i protagonisti nel puro simbolo visionario di un occhio che diventa dorato. Ma anche l’inevitabile natura apolide di chi non smette mai di percepirsi straniero, rispetto al Paese in cui vive o al sistema che lo controlla, e soprattutto il continuo sovrapporsi alla percezione del sogno come principale terreno su cui, sin dalla primissima inquadratura sugli ecoterroristi addormentati, si edifica un film che fa tutto quello che può per ostentare la sua lontananza dalla prassi. Con una trama volutamente ambigua ma dal senso generale e politico inequivocabile, con forme volutamente diverse tanto dai linguaggi canonici del mainstream narrativo quando da quelli della sperimentazione visiva, con un calderone di generi che transita agevolmente dalla guerra alla danza passando per gli spettri, l’allucinazione e l’afflato antibellico, con un cast di attori che fra russo, inglese, francese, igbo e polacco (il film verrà distribuito esclusivamente in versione originale) parlano esclusivamente lingue non loro – «Dove hai imparato il francese?» «Al cinema» – e, non in ultimo, con una co-produzione internazionale (fra cui l’italiana Dugong) grazie alla quale girare fra la Polonia, Parigi e la Nigeria. È per questo che parte da premesse e ambizioni senza dubbio interessanti Disco Boy, con cui il trentanovenne tarantino di stanza a Parigi Giacomo Abbruzzese, dopo una carriera di oltre tre lustri fra cortometraggi e documentari (non solo il celebrato America, ma già precedentemente l’ottimo Fame), compie il grande passo dell’esordio al lungometraggio di finzione con un lavoro effettivamente inclassificabile, politico, ipercinefilo. Intrinsecamente ribelle nel montaggio alternato fra l’arruolamento dell’ex galeotto bielorusso Aleksei nella Legione Straniera Francese, che nel giro di cinque anni, dopo il permesso di soggiorno temporaneo con cui non essere più clandestino, gli avrebbe garantito un nuovo nome, un nuovo passaporto e una nuova vita senza fargli alcuna domanda su quella precedente da lasciarsi alle spalle (ma destinata a rimanere lo stesso cicatrizzata sulla sua pelle proprio come l’inchiostro dei tatuaggi carcerari per sempre sul suo petto), e le rivendicazioni contro le multinazionali del petrolio del nigeriano Jomo leader del Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger, gruppo di guerriglieri consapevoli dei danni irreversibili fatti dal capitalismo occidentale bianco e dai governi locali corrotti tanto alla loro terra, da paradiso a luogo fra i più inquinati al mondo, quanto al loro popolo – «Abbiamo aperto gli occhi, non finiremo in schiavitù come i nostri padri».
Eppure, proprio all’apice del suo scorrere, quando i due filoni si incontrano (o forse sarebbe meglio dire si scontrano sul campo di battaglia) qualcosa nel meccanismo di Disco Boy sembra in qualche modo incepparsi, perdere per strada parte delle sue potenzialità in un secondo atto di soluzioni narrative non del tutto convincenti (non tanto gli incubali incontri notturni da qualche parte fra la visione, la persecuzione e il sogno, che invece funzionano e ipnotizzano, quanto i momenti che Alex passa nella stanza vuota della sorella di Jomo, o la festa privata in cui si imbuca scavalcando il muro salvo poi essere invitato a bere dal proprietario solo per un tatuaggio da orfano, o ancora la grana un po’ troppo grossa, pur nella piena e totale condivisibilità del messaggio, della divisa e dei documenti provvisori a cui dare fuoco proprio di fronte al muro con su scritto il motto della Legione Straniera, preferendo tornare alla clandestinità che rimanere ancora per un’ora in caserma) e nel didascalismo un po’ ipertrofico delle continue, troppe citazioni che alla lunga finiscono per appesantire il film, per farlo parzialmente deviare la sua traiettoria. Dall’addestramento di sudore e canzoni di Full Metal Jacket (declinate questa volta nell’Edith Piaf di Non je ne regrette rien) a una danza di spasmi intorno al fuoco che non può non ricordare il Jean Rouch di Les Maîtres fous, dagli elicotteri sul campo di battaglia devastato di Apocalypse Now fino al ballo “legionario” già immaginato (meglio) da Claire Denis in Beau Travail. Passando per qualche sorrentinismo/kechichismo in discoteca, per il flou di qualche neon di (non solo) refniana memoria, e per qualche vertigine onirica di ispirazione lynchana, per quanto priva della stessa capacità di perturbare, che sovrappone il vero e l’immaginato (Jomo che riappare a Parigi è un ritorno dalla morte, un fantasma o è semplicemente l’incubo di chi non riesce a darsi pace? O è forse tutto il film il sogno dell’uno e/o dell’altro protagonista?). Elementi indubbiamente affascinanti anche se ricontestualizzati in una nuova storia senza compierne una reale reinvenzione e anche se non sempre calibrati, per realizzare i quali però Disco Boy sembra a tratti distogliersi dal suo ragionamento sul senso di colpa e sull’identificazione nel nemico come negazione della stessa possibilità della guerra, sembra distrarsi dal mettere realmente l’accento sui motivi della crisi personale di Aleksei nel momento in cui si rende conto di essere stato sostanzialmente un killer (con tanto di ordine via radio di non aiutare donne e bambini dal villaggio in fiamme, concentrandosi solo sulla missione di salvataggio degli ostaggi francesi e caucasici) per conto degli affaristi stranieri che sfruttano uomini e territori in Africa. Ancora una volta dalla parte sbagliata della barricata, nel pieno torto, nella colpa, mentre la sua vittima nient’altro voleva che combattere per la propria terra e il proprio popolo, in una nuova Resistenza come fine per raggiungere il quale ogni mezzo, anche violento, non può che essere giustificato, financo necessario: è solo questione di capirne il punto di vista, il disegno generale, l’essere disposti a sacrificarsi per garantire a chi verrà dopo un futuro migliore.
Sarebbe tuttavia ingeneroso, per non dire crudele, incaponirsi a puntare il dito su ciò che del film non funziona fino in fondo, senza mettere sull’altro piatto della bilancia i tanti elementi che invece sorprendono in positivo, e che rimarranno a lungo, di Disco Boy. Come le coreografie speculari prima ai due lati del fuoco e poi del palco, come il momento di volare appesi a una corda sulla devastazione di alberi abbattuti e pozzi di petrolio in fiamme fra le musiche elettroniche di Vitalic, o come il legame fra il guerrigliero e il legionario suo assassino che porta inevitabilmente il secondo, passando per la maledizione, per la persecuzione o forse semplicemente per la capacità di vedere oltre dell’occhio d’oro, a decidere di (ri)vivere il sogno danzante del primo. È per questo che, al di là dei dubbi sull’effettiva riuscita di tutte le sue parti, non si può che volere bene al film di Abbruzzese unico (semi)italiano nel concorso principale della 73ma Berlinale, non si può che difenderlo, non si può che apprezzarne il profondissimo coraggio, non si può che ammirare la sua piena e totale libertà. Anche di sbagliare qualcosa, se necessario, pur di farlo con la propria testa. Un film che prova sinceramente a osare, a cercare una propria personalissima idea di cinema, ad affascinare con il suo andamento ipnotico e a colpire con la sua ben precisa vis politica, affidando a un sontuoso Franz Rogowsky già attore feticcio di Petzold il compito di mettere su schermo tutta la fragilità umana, tutto il dubbio, tutto il senso di smarrimento. Tutta l’ubriachezza, prima nella nottata fra il Bordeaux in discoteca e il superalcolico al parco in cui (sognare di?) essere aggredito da un uomo precedentemente seppellito con le proprie stesse mani, e poi la sera dopo alla ricerca di una sorella con cui ballare in totale (ri)trovata simbiosi. Ma anche tutta l’umiliazione, spogliato dai suoi commilitoni su ordine del comandante per ricordargli come senza divisa, legalmente, rimanga solo un clandestino. Al punto che conta solo relativamente che Disco Boy, con qualche sua ingenuità da passaggio alla finzione, non riesca a mantenere proprio tutte le sue promesse. Il talento del cineasta c’è, con una prima metà folgorante, con un grande attore che in qualche modo tiene assieme la seconda e con un gran bel finale di pura utopia. Ha solo bisogno di essere ancora un po’ allenato e raffinato per migliorare ciò che sta in mezzo, per limare qualche esagerazione e qualche difetto, qualche soluzione troppo cerebrale e qualche piccola sbandata, ripartendo invece dallo sguardo prezioso del regista, dal suo immaginario fertile, dalle sue altissime ambizioni. Perché è evidente che il cinema di Giacomo Abbruzzese possa avere potenzialità ancora maggiori. Ha solo bisogno di essere spronato, coltivato, perfezionato giorno dopo giorno, criticato in quello che ancora non funziona ma anche sostenuto nei tanti bei momenti, nella visione generale, nella capacità di mesmerizzare con un’intuizione, nel non c’entrare nulla con la media e con le “regole” delle opere prime. Con un piccolo rimprovero e poi con una carezza, come si farebbe con un bambino, con un soldato, con un ballerino da trasformare in étoile.
Marco Romagna