DIEGO MARADONA (2019), di Asif Kapadia
5 luglio 1984, un giorno tatuato a fuoco sulla Storia, ancor più che nel calcio. Un’automobile sotto scorta sfreccia per le vie di Napoli, da Posillipo fino al lungomare della Mergellina e poi dritta verso Fuorigrotta. Ad aspettarla 70 o più probabilmente 80mila tifosi stipati sulle gradinate al tempo scoperte del San Paolo, un intero popolo elettrizzato e ancora incredulo all’idea di poter vedere proprio lui, D10S, Diego Armando Maradona, salire i pochi gradini di quella scalinata che dal ventre dello stadio lo avrebbe portato per la prima volta sul “suo” campo. Stava arrivando il giocatore più forte di tutti i tempi, il genio, il prodigio, la leggenda, e stava arrivando in una squadra che l’anno prima aveva rischiato la retrocessione per tentare di portarla, per la prima volta nella sua storia, a vincere. Nessuno poteva sapere se ci sarebbe riuscito, nessuno poteva sapere quanti anni sarebbe rimasto, quanto avrebbe vinto e quanto essenziale sarebbe diventato nell’immaginario collettivo, così come nessuno avrebbe mai potuto immaginare quanto repentina sarebbe stata la sua caduta proprio per la paradossale seconda faccia del troppo amore. Ma era chiara a tutti, sin da subito, sin dalla prima conferenza stampa quasi surreale fra Ferlaino che caccia un giornalista che insinua inesistenti finanziamenti della camorra per l’acquisto del campione e la quasi difficoltà a sentirsi pochi metri sotto la bolgia infernale del pubblico stipato sui gradoni, la strabordante potenza iconica dell’abbraccio entusiasta di Napoli accorsa a un’epifania, a un Natale, a un’incoronazione: all’arrivo del nuovo re, o ancor meglio al primo svelarsi del nuovo Dio. Un amore a prima vista, reciproco, assoluto, totalizzante. Un amore eterno, nonostante tutto, nonostante i litigi, nonostante le incomprensioni, nonostante quelli che sarebbero stati i tragici errori di vita di una parte e le mele marce dell’altra. Perché nessuno ha mai capito Diego Armando Maradona come lo ha capito la città di Napoli, e probabilmente mai nessuno ha capito Napoli e la napoletanità come l’ha capita il capitano di sette anni, due storici scudetti e una Coppa Uefa, cresciuto nella povertà assoluta di Villa Fiorito e pronto a trovare nei più beceri «Lavali col fuoco» sentiti in trasferta a Torino, Milano e Verona una seconda Argentina di motivazioni nel Sud Italia da sempre schiacciato dalla ricchezza e dal razzismo del Nord. Fino a sovvertire la geografia economica e battere tutte le potenze sui campi da gioco, un’intuizione dopo l’altra, una magia dopo l’altra, un assist dopo l’altro, un’esultanza dopo l’altra. Uno scudetto dopo l’altro, con in mezzo una Coppa Uefa e un mondiale vinto in Messico praticamente da solo, trasformando il calcio in uno sport individuale, lo sport individuale in una guerra e poi la guerra – giusto un paio di minuti prima di quegli undici tocchi palla al piede del gol più bello della storia del calcio – nella Mano di Dio che ha vendicato gli argentini contro l’Inghilterra delle Falkland.
Ma non corriamo troppo, torniamo al 5 luglio ’84, torniamo alla macchina che corre fra le sirene verso lo stadio San Paolo. Non è certo un caso che il documentarista londinese Asif Kapadia decida di partire proprio da qui per il suo nuovo Diego Maradona, terza parabola di vorticosa ascesa, amore e clamorosa e devastante caduta dopo (Ayrton) Senna e Amy (Winehouse), presentato a maggio fuori concorso a Cannes e ora in Piazza Grande al 72mo Locarno Film Festival. Come non è certo un caso che, nel suo complesso lavoro di montaggio su materiali da riorganizzare e rendere racconto epico, decida di focalizzarsi sugli anni di Napoli, quelli in cui sta in un certo senso tutta la carriera di Maradona, il suo apice e la sua rovina. Da giocatore di talento, genio, sregolatezza e infortuni a vera e propria impersonificazione del calcio, leggenda, inarrivabile campione ed eroe sociale nella rivincita di ogni debole contro ogni forte, ma anche a uomo fragile, vittima della sua dipendenza dalla cocaina e della passione per le donne, vittima della camorra che gli forniva l’una e le altre usandolo in cambio come un burattino, vittima dell’odio non solo sportivo da parte del resto d’Italia che aveva così tante volte battuto, e poi vittima, passando per le incomprensioni di Italia ’90, dalla semifinale fratricida al San Paolo e dai fischi all’inno argentino dell’Olimpico, di un sostanziale abbandono dopo l’antidoping, la squalifica record e l’arresto. Anche se – ed è proprio nell’eccessivo assolutismo dell’ultima sezione, forse necessario per chiudere la simbologia cristologica della parabola maradoniana ma di fatto non rispondente alla realtà sociale di Napoli e forse nemmeno del tutto scevro da qualche pregiudizio, l’unico limite del Diego Maradona di Kapadia – ad abbandonare il Pibe de Oro fu forse la società Calcio Napoli, fu probabilmente la camorra che lo aveva usato e furono di certo quelle istituzioni che non aspettavano altro che fare fuori con una punizione esemplare la sua scomodità di giocatore troppo forte per una squadra senza una maglia a strisce, ma non fu mai la “sua” gente, il “suo” popolo, quei (non solo) napoletani comuni che ancora oggi e per sempre, fra murales e foto sul letto, nascono e vivono nel suo mito.
Emergono schegge del passato di Maradona, durante il suo primo breve viaggio in macchina verso lo stadio di Napoli: l’esordio in Argentina nel calcio professionistico, il Boca, la prima in nazionale, i dribbling, i gol, e poi quel Barcellona stufo della sua vita notturna e delle risse in campo alle quali Diego era tornato dopo il gravissimo infortunio alla caviglia, che a dispetto dei suoi ventiquattro anni lo considerava – e con quanto torto – ormai finito. Ma a Kapadia interessano solo relativamente i suoi primi passi nel calcio che conta, così come gli anni dopo Napoli, al di là della celeberrima intervista in cui quasi irriconoscibile nella sua obesità nel 2004 confessava alla televisione argentina il suo disintossicarsi in clinica psichiatrica e dell’incontro – seppur tardivo – di un Diego finalmente sereno e maturo con quel Diego Armando Maradona jr inizialmente non riconosciuto, rimarranno del tutto esclusi. Non ci sarà il suo clamoroso ritorno in campo “pulito” per USA94, e non ci saranno nemmeno le sue (dis)avventure da allenatore, perché quello che realmente interessa al regista, nel delineare usando esclusivamente immagini di repertorio straordinariamente restaurate il profilo a più voci di Diego Maradona, è la nascita del mito, della leggenda, e soprattutto di quella dicotomia fra il tenero e fragile Diego e l’inscalfibile eroe (o forse il tossicodipendente che ha buttato via parte della carriera e ha rischiato di perdere quella famiglia che era la sua vita) Maradona. Una doppia faccia fra uomo e sportivo – ma anche fra uomo e uomo – di cui ha sempre parlato chiunque lo abbia conosciuto, dall’allenatore personale Fernando Signorini all’amata e traditissima moglie Claudia, dalla prima amante Cristiana Sinagra madre di Diego jr al compagno di squadra e amico di sempre Ciro Ferrara. Passando per lo stesso Diego, la cui voce fuori campo, ormai lucida e asciutta, è il reale filo conduttore in una babele di lingue e di entusiasmi dei giornalisti sportivi e dei biografi di ogni nazione, mentre acquistano nuovo ordine e senso le immagini del campo e della vita fra esultanze e fotografie, fra sprazzi di classe assoluta e crepe di umana debolezza fuori dal campo, fra il 35mm dei film dei mondiali e i Beta della Domenica Sportiva, fra allenamenti e istanti privati in famiglia, fra un veloce ritorno alla miseria della provincia polverosa argentina e la magnifica punizione che si insacca a Torino contro la Juventus per il definitivo 0-1 accolto con svenimenti e principi di infarto da decine di estasiati tifosi azzurri.
Corrado Ferlaino aveva fatto salti mortali per prenderlo, e stava iniziando a raccoglierne i primi frutti, senza ancora sapere quanto in là si sarebbe potuto spingere il sogno. Mesi e mesi di trattative serrate, la necessità dell’intervento del sindaco per sbloccare i tredici miliardi di lire del Banco di Napoli necessari a soddisfare la richiesta record dei Blaugrana, e poi l’escamotage così splendidamente napoletano della busta vuota consegnata alla Lega alla scadenza dell’ultimo minuto utile per i tesseramenti, sostituita la notte stessa da Ferlaino di ritorno dalla Catalogna, raccontando una qualche frottola al guardiano giurato, con quella contenente il contratto firmato. L’ascesa di Maradona era appena al principio, la sua vera storia doveva ancora iniziare, il vero miracolo di San Gennaro doveva ancora compiersi, e questo lo sapevano i figli del Vesuvio accalcati sugli spalti alla storica presentazione e poi partita dopo partita, lo sapeva lui, lo sapevano le stelle. Lo sapeva il destino, di un uomo, di una città, di una nazione, di quel Sud proletario e bistrattato finalmente pronto a vendicare sul campo intere generazioni di soprusi. Insegnando magari «Juve Juve/Milan Milan vaffanculo» come prime parole alla piccola Giannina, perché entrare a far parte di un popolo, e anzi diventarne il più importante rappresentante, vuole dire anche questo. Diego voleva semplicemente essere Maradona, non il successore di Pelé. Voleva essere il più forte di tutti, e lo è stato. Voleva essere il più forte di sempre, e lo è stato. Voleva essere amato, e lo è stato fin troppo, anche da chi gli ha fatto male. Voleva portare l’Argentina sul tetto del mondo, e dopo averla trascinata fino alla finale di Messico86 con un puro colpo di genio finale ha servito su un piatto d’argento al mediocrissimo Burruchaga il pallone del definitivo 3-2 alla Germania. Voleva portare il Napoli sul tetto d’Italia, e ce lo ha portato ben due volte – la prima con tanto di Galeazzi «’nfracicato» nello spogliatoio festante mentre è Diego a intervistare i compagni, a cui le immagini montate da Kapadia riportano con una tale enfasi che è sinceramente difficile trattenere i brividi e qualche lacrimuccia, la seconda dopo aver già chiesto invano la cessione perché ormai definitivamente invischiato nel tunnel della droga e nella ragnatela dei Giuliano, continuando a giocare al massimo pur usando le urine di chissà chi al momento dei test antidoping. Più forte della pressione mediatica, più forte delle polemiche, più forte di un fisico tozzo e tarchiato, più forte del proprio egocentrico edonismo, più forte del proprio lato oscuro, e più forte pure dei ricatti della camorra. Fino a quel rigore mondiale segnato contro l’Italia a eliminarla proprio a Napoli dopo gli errori dal dischetto di Donadoni e Serena, con cui si rompe qualcosa, nasce il trauma, si scoperchia il vaso di Pandora. Diego diventa antipatico, particolarmente inviso a qualsiasi avversario, fino a finire ben presto nel mirino di polizia giudiziaria e tributaria, nel vortice delle intercettazioni in cui chiede cocaina e donne, nei registri degli indagati, per giungere infine al patteggiamento, alla lunga squalifica, all’arresto, alla distruzione. Alla caduta del dio, novello Icaro volato troppo vicino al sole per non crollare. Ma quanto è stato bello, epico e inavvicinabile il suo librarsi? Alzi la mano chi osa dire che non ne sia valsa la pena.
Marco Romagna