DIE MAUER (1990), di Jürgen Böttcher
All alone, or in two’s
The ones who really love you
Walk up and down outside the wall
Some hand in hand
And some gathered together in bands
The bleeding hearts and the artists
Make their stand
Roger Waters il 21 luglio 1990 a Berlino costruì su palco un altro muro, e poi lo distrusse. Dovremmo forse partire da questo, per definire che cosa sia un muro, o forse meglio, che cosa fosse. Oggi e ieri il senso di un muro è assai più complesso ed espanso di quello che potrebbe rappresentare una costruzione architettonica a dividere due realtà. E lo fu ovviamente anche quello di Berlino, in un certo senso. Uno dei percorsi più complessi sul tema fu presentato esattamente dieci anni fa su Rai3 da Fuori Orario – che nacque proprio poche settimane prima del crollo – con il mirabile titolo 51 Europa(e) – un istante e vent’anni, il muro si sbriciola: un lungo viaggio folgorante che partiva proprio dalle macerie (più umane che fisiche) di Rossellini fino ad arrivare nel cuore dell’apparente rivoluzione – come nel seminale Videograms of a Revolution (1992), co-diretto da Farocki e Ujica, precursore di cosa potrà essere la diretta televisiva e la sua estetica di dramma continuo negli anni a venire. Dieci anni da allora sono passati, e trenta esatti dalla caduta del Muro. Cos’è cambiato? Difficile dirlo, quando i muri paiono essere tornati materia del presente – ma questo non è affatto il luogo né il momento in cui parlarne – e quelli del passato paiono non essere mai esistiti. Ecco che in questi giorni la mini-rassegna itinerante 1989 | 2019 – Trent’anni senza Muro, pensata e realizzata da Federico Rossin e Alessandro Del Re per partire il 15 ottobre da Milano ed espandersi in maniera capillare nelle settimane successive in trentanove città italiane, diventa così importante e centrale; basti pensare anche a cosa oggi significhi l’archivio (quello del DEFA in questo caso) e quanto esso sia vitale nel ritornare a scrivere la stessa struttura della Storia. Perché necessariamente ogni ri-discussione torna improvvisamente all’oggi, all’urgenza della comprensione di un fenomeno e non alla sua falsa storicizzazione. E che cosa potrebbe essere, allora, un muro?
In questo programma itinerante saranno presenti Winter Adé di Helke Misselwitz, splendido on-the road al femminile di una società alla soglia della frattura, e Verriegelte Zeit di Sybille Schönemann, personalissimo affresco d’inchiesta su ciò che è stato quel tempo, e quel caos. Tra il prima e il dopo c’è questo mentre, semplicemente intitolato Die Mauer, forse l’ultimo, e già così postumo, grande film della DDR. Jürgen Böttcher (“Strawalde” il suo pseudonimo) è nato nel 1931, ed è cresciuto nell’Oberlausitz tra il terrore del regime nazista e l’idea del riscatto possibile. Si iscrive giovanissimo al Partito Comunista e studia all’accademia di Dresda. Considerato come moderno “degenerato”, il suo lavoro come pittore verrà scoperto solo nei tardi anni ottanta. Nel frattempo realizza per la DEFA (Deutsche Film AG, impresa cinematografica statale dell’Est con sede nei celeberrimi studi di Babelsberg) una trentina di lavori. Die Mauer, uscito a fine 1990, chiude in un certo senso il cerchio (quello dello stesso Böttcher, del Muro e di tutto il periodo). Il film è uno spaccato di ciò che si è spaccato, una presa diretta dello smantellamento stesso del Muro, e di ciò che lì rimane, quasi come se quei mattoni avessero un’anima pronta ad uscire dal corpo. Un lavoro quasi astratto ed enigmatico sulle immagini e i suoni delle cose, quelle che spariscono e quelle che rimangono. Emerge solo una realtà colpita nel suo disfarsi continuo, senza commenti e senza parole. Senza forma apparente. Pianisequenza, panoramiche e camera a mano; la macchina da presa entra nelle fratture del muro e guarda altrove. Ecco che compare il muro (una volta) floydiano, quasi come crasi definitiva del tempo – come delle scissioni – di una festa (quasi rituale) collettiva che Berlino forse non ha mai conosciuto nella seconda metà del Novecento. Mentre la musica sfuma, si arriva al finale, al vuoto assai presente.
All’interno dell’intenso programma dell’IFFR del 1999 dedicato al “Muro” (“After the fall of the Wall”) la sua descrizione nel catalogo metteva in luce come i cani che sorvegliavano quel Muro avessero un migliore ricordo di ciò che successe rispetto agli uomini. Probabilmente è vero, perché tutto lo sguardo di Böttcher attorno alla fisicità di chi per primo scalfì il Muro (con piccoli martelli o, addirittura, a mani nude) ora non rappresenta più alcuna memoria; paiono essere realmente i cannoni del tempo (proprio quelli di Debord, sotto cui cadde la Rivoluzione) ad averlo abbattuto. I giorni a cavallo della caduta furono un cortocircuito, una rincorsa di frammenti in continuo divenire in attesa della necessaria epifania, un condensatore di quasi mezzo secolo. Quando sulle pareti, oramai esanimi, di quell’organo manufatto vengono proiettate schegge della Storia. Immagini in bianco e nero che vanno dall’Impero al Reich, da Guglielmo a Hitler; e poi dalla costruzione alla caduta, dal dramma di chi l’ha provato a oltrepassare alla felicità di chi ora ne canta la fine. Fiaccolate e fuochi d’artificio, gli spettri si illuminano di scintille. Un’immagine dentro un’altra immagine, l’odissea temporale di Böttcher qui trova (spazialmente) la sua sintesi più ampia; alla base non il cinema puro ma la pura immagine, quella della frattura da cui scaturisce una nuova possibile luce a immaginare le cose. Arrivano poi le macchine che amplificano i frammenti di quella decostruzione, lasciando solo ombre e detriti; ogni immagine ne contempla al suo interno un’altra ancora (non più in senso fisico, ma nell’apparenza espansa che essa possa contenere un’altra distruzione di Berlino, quella rosselliniana appunto, verso l’oblio). Lungo la strada che unisce Potsdamer Platz alla Porta di Brandeburgo la Storia stava si stava ribaltando, per sempre; anime in transizione attraverso le brecce del Muro, attraverso la città, attraverso due secoli (e, forse, due millenni). In quelle notti, dove il tempo stava cambiando, ci sono le nostre radici, nel bene e nel male. Perché non basta lo sfaldarsi di un Muro per evitare il senso di un dramma: il decadimento e il crollo di quel mondo fatto a blocchi rappresenta il punto di stasi che fondamentalmente porta all’oggi. E non parliamo solo di quella riconciliazione, allora apparentemente complessissima, di tutta la Germania, ma della nuova identità globale rimasta inerme davanti alla contemporaneità. L’inverno pare passato, la neve è sparita, è tornato il silenzio; gli ultimi minuti del film sono illuminati da una luce quasi rinascimentale che amplifica le prospettive e gli spazi di quel regno disabitato tra il cemento. Un occhio dipinto su un frammento rimasto in piedi pare guardarci; un albero dalle fronde sgualcita si innalza verso il cielo. Il muro è morto, almeno quello, specifico. Quindi cosa potrebbe essere ancora un muro? Beh, qualcosa che inspiegabilmente si trova continuamente attorno a noi, senza che ne siamo direttamente consapevoli.
Erik Negro