THE LAST CITY (2020), di Heinz Emigholz
Nel rigore di forma, e di sostanza, del cinema geometrico e riflessivo di Heinz Emigholz, questo Die Letzte Stadt appare come un punto di non ritorno. Un punto esclamativo forse, inclassificabile per quanto personale e continuamente espanso per tempistiche e spazi, narrazioni e derive. Cinque luoghi – Atene, Berlino, Be’er Sheva, Hong Kong e San Paolo – che si attraggono e si distanziano continuamente, creando una spirale di riflessioni puramente filosofiche e terribilmente umane. Un viaggio di paure e di desideri che si definiscono nel senso di una questione strutturale dello spazio definito dalle inquadrature, e poi di nuovo in quei loro incontri. Un vecchio artista che dialoga con il suo io più giovane; una madre che vive con i suoi due figli grandi, un prete e un poliziotto; una donna cinese e una giapponese; un curatore e un cosmologo. Di cosa possono parlare? Emigholz è traghettatore e catalizzatore, attraverso di lui le storie si trovano compresse e, in un certo senso, sequenziate. Tabù che crollano, generazioni allo scontro, guerre che divampano e scompaiono in un attimo mentre altri conflitti deflagrano dall’apparente quiete. Si arriva alla cosmologia che dialoga continuamente con l’architettura, in cui la riscrittura dello spazio è un qualcosa che ha a che fare con il tempo e con la sua misura. Il viaggio è un atto lisergico senza coordinate in cui è (anche) lo stesso Emigholz forse a perdersi, a cuore aperto. Nella struttura del sogno, come dell’incubo, può risiedere una realtà?
Stando alle parole dello stesso Heinz Emigholz, prima di approdare sullo schermo fra gli Encounters della 70ma Berlinale il film ha avuto una genesi assai lunga e laboriosa. Il progetto è nato poco meno di venti anni fa con altre cinque città (Alessandria, Kashan, Buenos Aires, Fez e Houston) e altrettanti atti liberamente combinabili. Tutto allora naufragò, ma l’esigenza data dall’età (gli ottantatré anni dell’architetto/autore) lo ha portato ora a realizzarlo procedendo lungo una nuova direzione rispetto alla macchina da presa che dava voce a oggetti e strutture, lasciando alle forme di astrazione una decisa e radicale pratica narrativa. Conseguente, ed evolutiva, rispetto al meraviglioso Streetscapes [Dialogue], quest’opera lascia lo spazio alla parola nel divenire dove tutto procede per scambi di spazi e ruoli, dall’apertura sul deserto del Negev verso Be’er Sheva, dal rigore berlinese alla stratificazione ateniese, fino alla verticalità alienante di Honk Kong e ai campi lunghissimi di San Paolo. La prospettiva concettuale è quella di creare un’ipotetica «ultima» città – non ideale ma possibile – costruita con le cinque mostrate; non tanto attraverso la giustapposizione e del montaggio, ma nei vorticosi raccordi della parola metafisica. Un’esperienza pan-cinematografica (e pan-onirica) che si sviluppa sul parallelismo spaziale e temporale. C’è un languore espressivo e diretto della crudeltà di un reale perverso e dalle mille derive, del divino e dell’umano; un’indagine sulla nostra presenza e di come essa possa continuamente sovrastrutturare l’ambiente esterno. I nostri atti, così come i nostri movimenti, costruiscono gli ambienti che poi viviamo, in un circolo continuo, in una spirale che definisce ciò che abbiamo intorno.
Emerge inizialmente il senso del film come atto di analisi – soggettiva e oggettiva – di un moto continuo della comprensione. Ciò coinvolge l’ambito più complesso della realtà, quello che mette in comunicazione l’ambiente con la narrazione, su cui un diverso approccio conoscitivo e cognitivo può approfondire la spazialità creata dalla sceneggiatura e la libertà con cui la macchina da presa indaga ciò che sta a fondo campo. Nella composizione del torrenziale Streetscapes già emergeva l’attenzione (e l’attrazione) dello stesso Emigholz a un rapporto umano con la forma e con le forme, con il paesaggio e con il linguaggio, con il suono e con l’immagine. Qui invece la forma dello sguardo, e la sua interpretazione, si pongono in direzione di una topografia onirica delle anime che disegnano il mondo. Una visione che supera la staticità delle cose per privilegiare il movimento e la riflessione, il potere della domanda (di ogni domanda) che compone le cose. Die Letzte Stadt è un lavoro particolarissimo – essenzialmente unico nella sua sterminata filmografia – di impossibile decodifica tra l’intuizione e la pulsione, dove la superficie del reale cerca di diventare intellegibile allo sguardo liberando così tutta la sua profondità enigmatica. Non esiste ideologia provvisoria nel geniale intellettuale tedesco, ma solo continua sperimentazione sul campo di una rivoluzione continua, dell’intelletto come dell’ambiente, con la rottura di ogni tabù possibile ancora nell’oggi. Il controcampo ideale dell’ascetismo di Years of Construction è dunque forse proprio questo, sempre nell’ottica di una compenetrazione continua di un’interfaccia fra il pensiero personale e il mondo esterno. Non c’è alcuna possibile disparità fenomenologica fra loro, negarlo sarebbe come negare ogni possibile nostra comprensione di senso.
Erik Negro