CineLapsus.com inizia la sua nuova avventura. Inizia da Torino, un Festival da noi molto amato.
Volevamo fortemente che fosse così, con la nostra valigia sempre in mano e gli occhi costantemente alla ricerca del fotogramma giusto. Usciamo allo scoperto in una versione grafica non ancora definitiva, come nel costante scorrere di pellicola che è nostra precisa dichiarazione programmatica, da cinefili, critici ed eterni studenti.
Torino Film Festival, trentaduesima edizione (21-29 Novembre 2014)
21 novembre, giorno 1
“Storm children. Book one” (2014), di Lav Diaz
Lav Diaz documenta gli eventi idrogeologici che sempre più spesso colpiscono le Filippine. Le vere vittime sono i bambini, innocenti nei loro vestiti fradici e nel loro sguardo triste. Immortala -con classe ed intensità abbacinanti- la pioggia, il Vento, una tenda che sgocciola mentre i bambini ridono. Ne emerge una realtà fatta di povertà, di materiali portati via dal fiume, di giare piene d’acqua, di lavoro e di gioco, innaturale e luttuoso percorso di crescita. Il confine fra documentario e fiction è sempre più sottile, la retorica viene rifuggita con sublime ostinazione, mentre una nave assassina diventa trampolino per i tuffi. Straordinario. (M.R.)
“Tokyo Tribe” (2014) di Sion Sono
Un geniale viaggio allucinato fra le tribù che, a detta dei manga, popolerebbero Tokyo. Si mescolano rap, yakuza, messe nere, eros, cannibalismo e machismo, in un falso b-movie dall’altissimo tasso di cinefilia, surreale calderone pop, esplosivo e antibellico. Ritmo, risate, autocitazioni, frecciate contro il cinema americano. Ce n’è per Kill Bill, Star Wars, Spring Breakers. Pure Arancia Meccanica, fra l’omaggio e la parodia. Indimenticabili la pistola-telefono, la turbina assassina e l’inusitata bellezza di tutte le attrici coinvolte. (M.R.)
“Phantom of the Paradise” (1974), di Brian De Palma
Un enorme piacere rivedere sul grande schermo uno dei migliori film del regista più sottovalutato di Hollywood. Fra Faust e Dorian Gray, per un thriller musicale che si snoda fra dolore, vendetta, cocaina e star system. Voluti buchi di sceneggiatura creano linguaggio, mentre una ventosa omaggia Psycho. (M.R.)
22 novembre, giorno 2
“The immortal sergeant” (2013), di Ziad Kalthoum
L’urgenza di raccontare è benzina sul fuoco del linguaggio cinematografico.
Damasco, 2012. Al mattino, soldato dell’esercito siriano, al pomeriggio assistente su un set cinematografico. Sta per divampare la guerra civile, fra gli echi dei mig e gli spari in lontananza. Iniziano a piovere bombe, e il conflitto entra di prepotenza nel cinema. Seguiamo -letteralmente- i passi di un uomo che abiura guerra ed eserciti, in una drammatica camminata nella realtà. Il cinema è solo per chi riesce ancora a sognare, finché non suonerà la sveglia di un’altra bomba. Un documentario duro bellissimo e necessario, fra gli orrori della guerra, vecchi proiettori e la struggente musica dei Silver Mt. Zion. (M.R.)
“Phase IV” (1974), di Saul Bass
Fra la fantascienza e l’horror, opera unica del già titolista di Hitchcock. Le formiche, organizzatissimo esercito, decidono di conquistare la terra. Ne seguirà un film preapocalittico, per molti versi padre del primo Cronenberg, a tratti imperfetto ma di indubbio interesse, cinematografico e scientifico. (M.R.)
“Endless Escape, eternal Return” (2014), di Harutyun Khachatryan – Viaggio nei tempi e negli spazi di un Armenia che non c’è più (e la domanda eterna sul fatto che ci sia mai stata). 25 anni, scorrono in un attimo. Khachatryan segue con grande poesia ed infinità umanità l’infinito viaggio di un uomo qualsiasi, viagrabuynow che diventa un epica moderna della migrazione. Tra pesche nei mari artici e incontri ravvicinati con enormi orsi, rimangono malinconie e fotogrammi, nell’eterna speranza di un ritorno. Rimanendo fedele ad un occhio che vuole solo documentare, riemerge un senso nuovo delle cose, ed un ode alla vita (“presa per come viene”). Film dolcissimo, da vedere e rivedere, come presente che ha bisogno di un passato, per cerare il (suo) futuro. (E.N.)
“Habitat” (2014), di Emiliano Dante
Sincera ed urgente opera personalissima sulla non ricostruzione de L’Aquila. Ideale seguito del precedente Into the Blue, Habitat si snoda nelle microcittà fantasma nate nel deserto della periferia aquilana. Un luogo senza colore, minaccioso nella propria natura. Il progetto C.A.S.E. è la spersonalizzazione di una città, che sfocia in depressione e ricerca di catartico linguaggio filmico in un luogo di soli fantasmi nel quale permangono, sempre più salde, le proprie radici. Non totalmente impeccabile, ma ben lontano dalla retorica, onesto ed accorato. Assolutamente interessante, un bagliore nel grigio panorama italiano. (M.R.)
“Thou wast mild and lovely” (2014), di Josephine Decker
Tante (troppe) idee confuse, in un pretenziosissimo minestrone che vorrebbe emulare Malick ma finisce per mescolare senza soluzione di continuità mucche, sesso e thriller. Privo di un’idea di fondo, a tratti fastidioso, un film che vorrebbe provocare senza però avere una direzione. La Decker spreca per mera pretenzione indubbie capacità, ritrovandosi in mano un film zoppo dopo le troppe cadute. E che non si parli di cinema sperimentale! (M.R.)
“Mulberry St.” (2006), di Jim Mickle
L’idea, un’epidemia che trasforma le persone in ratti assetati di sangue, è bruttina di per sé. La realizzazione, fra scrittura claudicante e montaggio grondante di errori tecnici, fa precipitare ulteriormente la situazione. Pessimo esordio, ma la selezione in Quinzane a Cannes dell’ultimo lavoro del giovane regista, insieme alla scelta del TFF di omaggiarlo, fa sperare in una radicale maturazione sopraggiunta in questi anni. (M.R.)
“In guerra” (2014), di Davide Sibaldi
Pasticciaccio di bestialità urbana alla periferia di Milano. Una notte low budget che scimmiotta malamente Collateral, con la grave pretenzione di voler spiegare la violenza nel mondo attraverso due giovani (pseudo)intellettuali. Fra carrellate montate su una bicicletta, dialoghi patetici e raccordi di montaggio degni del peggior filmino delle vacanze, si consuma uno scempio che si staglia al vertice del trash inconsapevolmente comico nostrano. Gang che lanciano palline di acciaio e miniciccioli, culmine di un lungometraggio che ha l’opinabilissimo merito di aver buttato nella spazzatura “solo” 6000 euro. (M.R.)
23 novembre, giorno 3
“Inupiluk” (2014), di Sebastien Betbeder
Grazioso e tenero mediometraggio sul superamento umano delle difficoltà di comunicazione. Due amici parigini ospitano per qualche giorno una coppia di cacciatori inuit. Nonostante la barriera linguistica, scatterà un doppio e divertente romanzo di formazione, sentiero verso una maturità personale e sociale. (M.R.)
“La chambre blue” (2014) di Mathieu Amalric
Noir che riscrive le regole del noir, tratto da Simenon. Amalric alterna con ritmo un doppio filone narrativo, che si snoda fra il passato e il presente, l’adulterio e l’inchiesta giudiziaria. Lui, lei, i rispettivi coniugi e il giudice, in un climax tragico che, una volta innescato, diventa un vortice che tutto inghiotte. Dalla carne alla corte, delitto e castigo, con un’annichilente aura di ineluttabilità. Un film forse imperfetto, che a tratti sembra sfuggire di mano, ma trova proprio in questo la sua forza vitale: assolutamente da vedere. (M.R.)
“Hit 2 pass” (2014), di Kurt Walker
Si parte da videogrammi ludici, poi si corre verso una corsa di automobili nella quale per sorpassare devi colpire l’auto dell’avversario. Ma tutto si trasforma in maniera magmatica quando l’incontro e l’ascolto irrompono nel circuito del tempo e la parola diventa sospensione. Si apre un nuovo scenario dove le storie lasciano spazio alla Storia. Un campo neutro che distoglie l’attenzione da qualsiasi proposito iniziale ed arriva a dise/desi/gnare il corpo cinema, tra la purezza del 16mm e l’astrazione dei primissimi videogames. Le immagini si accavallano, nulla è più come prima. Grande lavoro di Kurt Walker sulle immagini e idealmente sugli scontri (di esse). Un opera multiforme, che per lunghi tratti lascia assolutamente sbigottiti e apre squarci enormi sull’immaginario. Assolutamente da recuperare. (E.N.)
“It follows” (2014), di David Robert Mitchell
Un groppo alla gola che prende alla primissima sequenza, e non molla la tensione per tutto il corso del film. It follows, citando e ricontestualizzando Carpenter, Craven e Tourneur, si snoda fra i topoi del teen horror, riscrivendone buona parte. Una beffa allo spettro delle malattie veneree, da cui liberarsi con altro sesso, in un film angosciante nei carrelli e nei movimenti circolari. Colui che segue cammina con passo costante e cadenzato, come l’ineluttabilità del tempo che passa e della morte che si avvicina. La paura e gli elementi tipicamente orrorifici lasciano spazio ad un atavico terrore molto più puro e totale, mentre gli occhi non riescono a staccarsi dallo schermo. (M.R.)
“The graduate” (1967) di Mike Nichols (M.R.)
Rivedere Il Laureato su grande schermo è sempre emozionante. Accompagnato dalle immortali note di Simon and Garfunkel, Dustin Hoffman si destreggia, con l’intensa ingenuità del ventenne, nella doppia love story con Miss e Mrs Robinson. Ne emerge un mirabile manifesto della generazione upper class a cavallo fra gli anni ’60 e ’70: storia di libertà sessuale, amore ed America. (M.R.)
“Branco sai preto fica” (2014), di Adirley Queirós
Il cinema politico brasiliano si rinnova ancora, abbracciando le forme della fantascienza. In un futuro prossimo, la ghettizzazione dei neri è sempre più pesante e pericolosa: in un vero e proprio raid della polizia in un locale, un uomo perde una gamba, l’altro rimane in sedia a rotelle. La denuncia e il riscatto passano attraverso una radio libera che trasmette in questo non-luogo nei sobborghi di Brasilia. New new Wave brasiliana, libertà di linguaggio ed urgenza di raccontare. Echi godardiani tendono al riscatto sociale, ma si finisce per rimanere chiusi in se stessi, fantasmi di un mondo-ghetto. Un film estremamente interessante. (M.R.)
“The Guest” (2014), di Adam Wingard
Un soldato in congedo va in visita ai parenti di un suo ex commilitone, caduto. Ne seguirà un falso B-movie che, portando ad una voluta esasperazione tutti i cliché del caso, saprà introdurre una riflessione sul traballante confine uomo-drone. A tratti molto divertente, inciampa tuttavia troppe volte nel gratuito, risultando un filmetto gradevole ma lontano da qualsiasi discorso di autorialitá. Apprezzabili le citazioni esplicite, dal letto di Kill Bill fino ai coraggiosi specchi de La Signora di Shangai. (M.R.)
24 novembre, giorno 4
“Mr Kaplan” (2014), di Alvaro Brechner
Commedia agrodolce uruguagia che, a metà fra Nebraska e This Must Be The Place, riflette jodorowskianamente sulla senilità. Un anziano ebreo si convince che un coetaneo tedesco, gestore di un bar sulla spiaggia, sia in realtà un criminale nazista. Con l’aiuto di un ex poliziotto, imbranato nella vita e nel lavoro, partirà in una personalissima quanto assurda indagine. Non mancano divertenti elementi surreali, né l’amarezza ancestrale di un vecchio che sbaglia porta di casa, bussando ai vicini. Un film piccolo, onesto e sincero, capace di superare i difetti dovuti a una forma troppo scolastica grazie all’umanità che sa esprimere. (M.R.)
“Men Who saved the world” (2014), di Liew Seng Tat
Un’allegoria troppo semplice e ripetitiva ci porta ad una critica alla società malese che non riesce a convincere pienamente. Paure ancestrali, superstizione e arretratezza culturale si rincorrono nello spostamento di una casa dal bosco al vicino villaggio. La casa bloccata dalla paura è metafora della cultura, ferma a pochi passi dagli uomini, ma respinta dalle credenze popolari. Nell’addizione che diventa follia dilagante, il film perde ben presto gli spunti comici, finendo per stancare lo spettatore con la propria pretenzione fino ad un finale tanto ridondante da risultare fuori luogo, apice di una struttura narrativa sghemba. (M.R.)
“Tell them Willie Boy is here” (1969), di Abraham Polonsky
Uno dei film meno conosciuti della retrospettiva. Arizona, un Robert Redford vicesceriffo spietato nella caccia all’indiano. Film che sbaglia tantissimo: vorrebbe usare il western per denunciare le storture democratiche e schierarsi dalla parte dei nativi americani, schiacciati dalla società razzista bianca, ma finisce per ottenere l’effetto opposto, diventando una sorta di pamphlet dal sapore quasi destrorso, distrutto nelle intenzioni dall’impianto linguistico e dalla retorica. Da un regista-sceneggiatore che ha conosciuto l’esilio maccartista in prima persona, sulle intenzioni del quale non ci sono quindi dubbi, il film crea un grosso equivoco indugiando troppo sullo sceriffo antieroe, fino a caricarlo di una personalità che lo fa risultare nettamente più simpatico della vittima protagonista. Con buona pace dell’impostazione autobiografica alla base della messa in scena, e dei nobili scopi. Lo splendido finale, oon l’uomo stanco di scappare, non basta a risollevarne le sorti. (M.R.)
“Lost in Belluscone” (2014), di Franco Maresco
Una selezione di splendide scene tagliate da ‘Belluscone’, in uscita come inserti speciali dell’home video prossimo futuro. Ciccio Mira, i fratelli La Vecchia e i neomelodici protagonisti vengono ulteriormente incalzati dal regista palermitano, regalandoci splendide dissertazioni su mafia, sesso e musica. Ne emerge ancora più ignoranza, ancora più annichilente amarezza, ancora più cinismo, masochistico, di Franco Maresco. Non esiste catarsi, le clip presentate mostrano pura amarezza. Imperdibile! (M.R.)
“Democracy under attack. An intervention” (2012), di Romuald Karmakar – Dieci riflessioni, dieci spunti, dieci momenti per chiedersi ancora cosa sia la democrazia e per quale motivo essa è continuamente sotto attacco, tra la guerra dei mercati e l’urgenza della finanza come tra la crescente disuguaglianza sociale e la nostra indifferenza implicita. Karmakar si limita a montare (tranne l’inserto di un suo piccolo corto) i dieci interventi di questo splendido dibattito sulla democrazia tenutosi alla Casa delle Culture del Mondo a Berlino nel dicembre 2011. Semplicissimo ma toccante spazio su innumerevoli punti di vista “esterni” dei nostri tempi, che tre anni dopo sembrano ancora più tragici. Assolutamente da vedere, ascoltare e mettere in pratica. (E.N.)
“Snakeskin” (2014), di Daniel Hui
Cos’è stato, cos’è (e cosa sarà) quel lembo di terra chiamato Singapore. Un immaginario polimorfo tra colonialismo e liberazione, disobbedienza e militanza, attraverso un viaggio nel tempo cinema. Il giovanissimo Daniel Hui firma un film sublime e sospeso fatto di mille storie che scivolano in splendide immagini di uno stato in continuo cambiamento e contraddizione. Intimo quanto collettivo questo ritratto parte e si conclude con il fuoco, simbolo di un inconscio sommerso fatto di momenti inghiottiti che solo lo spazio di un inquadratura, nata da una parola, può far riemergere. Alla fine mentre nessuno è vincitore come nessuno è vinto e la pelle del serpente Singapore è sempre più lucente, manca il fiato; troppa luce per così tanto e lungo buio, un raggio unico. Straordinario. (E.N.)
25 novembre, giorno 5
“Cold in July” (2014), di Jim Mickle
Jim Mickle passa al thriller, con risultati leggermente migliori rispetto a quelli ottenuti nell’horror. Parte bene, con un uomo comune (Michael C. Hall) che uccide un ladro intrufolatosi in casa, e dovrà fronteggiare in un crescendo di tensione la vendetta del padre di lui, pericoloso criminale. Finisce però in un gioco sporco, di polizia corrotta e nuove agghiaccianti verità, che fanno scivolare il film, nella seconda parte, in una pessima caccia all’uomo priva di alcun senso. Narrativamente debole, molto poco credibile, fastidiosamente tamarro. Qualcuno tolga le gelatine colorate al Dop. (M.R.)
“Approaching the elefant” (2014), di Amanda Rose Wilder
Un piccolo viaggio (a tratti wisemaniano) in una nuova “free school” americana, dalla sua costituzione fino alla conclusione del primo anno. Per tutti i protagonisti non è solamente il primo giorno di scuola, ma l’inizio di un’avventura formativa diversa. Le lezioni sono volontarie e le regole decise attraverso votazioni democratiche; tutti possono dire la loro ed il confine che separa regole da violazioni è liberamente indagato: La scuola come territorio fisico ed etico autonomo, ma dove finisce la democrazia? La giovanissima Amanda Rose Wilder costruisce un interessantissimo e dolcissimo ritratto di questa esperienza complessa, in cui spesso il direttore si trova in difficoltà nella gestione di tali strumenti democratici. Sarebbe splendido ed ancor più riflessivo fra molti anni valutare i risultati di queste esperienze e come il concetto di autodeterminazione di possa essere instaurato in questi simpaticissimi ragazzini. (E.N.)
“Iranien” (2014), di Mehrat Tamadon
Film documentario sulla situazione politica iraniana. Una casa nei sobborghi di Teheran. Il proprietario è di nazionalità iraniana, ma è ateo e vive in Francia. I suoi ospiti sono fedelissimi del regime, religiosi e fieri sostenitori della repubblica islamica. Un pugno di giorni a discutere, analizzando i pro e i contro dello stato laico e di quello religioso. Sul piatto, la diatriba sui modi quasi dittatoriali della democrazia, la condizione femminile in occidente e in oriente, il referendum di 35 anni fa che scelse l’Islam al 98%, i libri, la musica e la debolezza umana. Da una parte, tradizione ed eliminazione delle tentazioni, dell’altra l’autoregolamentazione, il convivere civile nel mutuo rispetto, ma anche il salto nel vuoto di un sistema che già altrove sta fallendo. Uno spaccato estremamente interessante, nel quale si cercano di conciliare posizioni antipodiche. Ripartito con difficoltà dopo le riprese del film, il regista non puó più tornare in Iran, pena il ritiro del passaporto. (M.R.)
“The ballad of Cable Hogue” (1970), di Sam Peckinpah
Straordinaria revisione (in 35mm una delle uniche in questa non esaltante retrospettiva) di un film immenso e senza tempo. Cable Hogue (Jason Robards), cercatore d’oro, viene tradito dai suoi due compari che lo lasciano solo e senz’acqua in mezzo al deserto. Trovata una sorgente tra i sassi e la sabbia, Cable sopravvive e ha l’intuizione di registrare quel terreno a suo nome per costruirvi una stazione di fermata per le diligenze. Facendo di sé stesso un self-made man con l’unico proposito di vendicarsi dei suoi due ex sodali, Hogue incontrerà nella sua strada Hildy (Stella Stevens), una bellissima prostituta con cui avvierà una tormentata storia d’amore e Joshua (David Warner), un ambiguo predicatore più interessato alle belle fanciulle che alla parola del Signore. Una volta ritrovati i suoi ex compari, Cable uccide uno dei due e perdona l’altro. Nel frattempo, Hildy, diventata una gran signora dopo aver sposato un uomo ricco, ritorna da Cable a bordo di un’automobile che, fatalmente, investirà a morte il protagonista. Simbolicamente sarà proprio il progresso a causare la morte di Cable Hogue, uomo dell’800. Questo capolavoro di Peckinpah è ben più di un metawestern crepuscolare perchè (de)strutturato su elementi che segnano l’arrivo di una nuova era, e allo stesso tempo la fine di un’epoca, l’epoca dei cowboy, dei cercatori d’oro, del Far West e di un certo straordinario cinema. (E.N.)
“Qui” (2014), di Daniele Gaglianone
Un gruppo cattolico di preghiera, lo streaming gratuito di Radio Blackout, un sindaco valsusino, un’anziana proprietaria di agriturismo, una famiglia destinata a morire per l’amianto, un agricoltore in stampelle accusato ingiustamente, un carabiniere in congedo ferito dai suoi ex colleghi: ecco i ‘pericolosissimi facinorosi’ no tav. Daniele Gaglianone ha girato per quasi due anni in Val di Susa, esplorando i meandri umani e politici che abitano una montagna ferita. Il lancio di lacrimogeni illegali in tutta europa ad altezza uomo, i pestaggi gratuiti sui manifestanti, Luca che cade dal traliccio, le forze dell’ordine svuotate della dignità umana, pronte ad eseguire ordini criminosi, le risposte sprezzanti del pd, ‘respirate amianto anche piantando le patate’. Un progetto, quello per il tav, che prevede già sulle carte appena approvate un forte aumento dei tumori, in totale ripudio dei diritti umani -a partire da quello alla vita- in favore di logiche economiche squallide, clientelismo, appalti truccati. Daniele Gaglianone si conferma uno dei migliori registi italiani in attività: duro, politico, idealista. Meno sperimentale di altre volte, ma di una profondità sublime. Un pugno nello stomaco, pronto a sezionare il peggio dell’Italia senza mai cadere nella retorica. Un film documentario eccezionale, emozionato ed emozionante, necessario, che arriva dritto alla testa e al cuore. Fra le visioni più confortanti dell’anno, e non solo. Certo, a causa dell’argomento trattato e delle stoccate tirate alle varie istituzioni avrà non pochi problemi ad essere distribuito. Ma anche a questo, purtroppo, Gaglianone è abituato. Da vedere, rivedere, studiare, per risvegliare le coscienze. (M.R.)
“Waiting for August” (2014), di Teodora Ana Mihai
Distanze che diventano attese. Georgina a 15 anni deve già badare a sei fratelli (nelle fredde e difficili periferie di Bacau, Romania) mentre la madre lavora come badante, molto lontano (Torino). Spesso la situazione risulta ingestibile e nemmeno lunghe e corali chiamate su skype possono assolvere il ruolo di educazione, perchè si cresce in fretta e può succedere di tutto. Mamma tornerà ad agosto appunto. Ritratto di una giovinezza, in certi momenti troppo trattenuto e/o costruito ma con un apertura splendida ed un finale quasi commovente. La giovane Mihai se la cava molto bene in un ambito così spigoloso facendo correre le stagioni con tenerezza ed immaginazione. (E.N.)
“Life may be” (2014), di Marika Akbari e Mark Cousins
Un intimo rapporto videoepistolare tra l’artista iraniana e lo storico inglese, due autori, due cinefili. Si parte dai pianisequenza parlati fino alle scorie delle censure visive corporee tra l’occidente ed oriente. Ogni parola, crea un immagine, e si fanno corpo (in tutti i sensi) di una memoria collettiva e nascosta chiamata cinema. Videodiari di viaggi(o), moti perpetui dello stare qui, di noi. Straordinarie le sezioni di Cousins, nel rileggere e ricontestualizzare immaginari, meno forti le risposte della Akbari a tratti ripetitiva e spesso fuori fuoco. Resta indubbiamente interessante. (E.N.)
“Actress” (2014), di Robert Greene
Ascesa e declino, a livello umano e professionale, si mescolano nel documentario sull’attrice Brandy Burre. Le scene di vita vissuta si intersecano dolcemente, rinunciando alla mera cronologia in favore di una scelta linguistica che non si limita a mostrare i drammi esistenzial-lavorativi di una madre, ma lascia ampio spazio a lirismi ben congegnati ed efficaci. Spiace quindi ancor più dover sottolineare la scarsissima intelligenza della protagonista, che a lungo andare la rende quasi insopportabile ed azzera qualsiasi interesse antropologico. La più grave: il marito tradito perché non ha installato un lavatoio per neonati nel ristorante di famiglia. Peccato, perché a livello filmico si tratterebbe di un buonissimo lavoro. (M.R.)
“Jour et Nuit – delle donne e degli uomini perduti” (2014), di Tonino De Bernardi
Giorni e notti che si confondo, tra la Grecia, Parigi e Torino, tra Laforgue, Tolstoj e Joyce. Figure che si disgregano nei paesaggi, abbandonate e poi riprese, perdute e sempre ritrovate nel percorrere e camminare il mondo fino in fondo, per cercare di capire qualcosa. Ennesimo capitolo dello straordinario errare filmico di Tonino De Bernardi, pioniere dell’underground italiano ed eterno creatore di linguaggi. Lo schermo si divide, le immagini si sovrappongo germinando da parole confuse tra le lingue e nate nelle culture. Ennesimo atto di amore di un uomo al cospetto della (sua) storia, di quello che poteva essere e non è stato, di un umanità persa. Ennessimo respiro di resistenza che confonde e toglie il fiato. Rimane l’esserci, tra l’amare ed il lottare. Per chi scrive nettamente il momento più alto di questo festival. (E.N.)
26 novembre, giorno 6
“Manage tes morts” (2014), di Jean-Charles Hue
Ennesimo tassello di brutto cinema di funzione francese. Una famiglia e piccola comunità rom nella Francia attuale: il rame, qualche furtarello. Nella prima parte -bruttina- gira a vuoto, parlando di nulla per 50′, ma subentra un qualche tipo di interesse, squisitamente antropologico, verso una popolazione ineluttabilmente affascinante. Poi, un fratello torna dopo 15 anni di carcere, ed il film vira inaspettatamente su una sorta di pessimo road movie con aspirazioni noir, intriso della più becera retorica con tanto di discorso alla polizia durante la fuga. Girato e montato con poco gusto e parecchia arroganza, fastidiosamente verboso, procede noiosissimo fino ai sei finali consecutivi, che rendono completa l’agonia nel vedere un film oggettivamente imbarazzante. Molto meglio del previsto gli attori, in buona parte presi dalla strada, ma non salvano un film inguardabile per linguaggio, trama e tecnica. (M.R.)
“Srok / The Term” (2014), di Pavel Kostomarov, Alexei Pivovarov, Alexander Rastorguev
Russia, oggi. A venticinque anni dalla fine della (compianta) Unione Sovietica, il più grande paese del mondo a caccia del prossimo leader (o dittatore?). Tra il fantasma di un Putin caricaturale e il nuovo inquietantissimo idolo web Navalny, attraverso sinistra, destra e ortodossia radicale. In mezzo il popolo russo in continua confusione. Anche il lavoro dei tre registi appare caotico e spesso sconnesso, in un paese che non trova più un identità ed ha bisogno costante di un uomo autoritario al timone. Un esperienza all’interno di una società incomprensibile, in cui solo il cronista radio e la bionda starlett forse capiscono che nulla cambierà. Scompaiono le immagini e compare un canto su Lenin. (E.N.)
“Anuncian sismos” (2014), di Rocio Caliri e Melina Marcow
Ambiziosa opera prima argentina che interessa ma non convince. Fra ‘La Classe’ di Cantet ed il Sion Sono di ‘Suicide Club’ e ‘Noriko’s dinner table’, a budget bassissimo, alterna buone idee a pesanti cadute di stile. Un’epidemia di suicidi di adolescenti falcidia un piccolo liceo, microcosmo nel quale non vengono colte le avvisaglie e, come dichiara una scritta sulla lavagna, “il significato è una questione di volontà”. Come l’annuncio di un imminente terremoto nel latrare dei cani, un gruppo di parenti delle vittime fonda una sconclusionata orchestra, mentre le autorità scolastiche cercano di mascherare il dramma nell’organizzazione di una festa. Gli sparuti spunti di interesse non riescono però a far dimenticare una messa in scena pessima per sceneggiatura e montaggio. (M.R.)
“P’tit Quinquin” (2014), di Bruno Dumont
Miniserie in 4 episodi da 50 minuti l’uno, nei quali Dumont destruttura il suo cinema, rimanendo però ben saldo ai suoi elementi più riconoscibili. Un piccolo paese sulla Manica: fra lo sguardo di una quindicenne che piange prima di lanciarsi fra i maiali e le corse di un pazzo nel bosco, Dumont elabora una sorta di Twin Peaks dove l’ignoto lynchano vira in pura e divertente surrealtà. Un film che colpisce profondamente, per la capacità di alternare gli efferati delitti -cifra dumontiana fatta di uomini malvagi e pronti ad esplodere- con il percorso di crescita del piccolo Quinquin, tenero nei suoi primi baci sulla spiaggia, e ancora con la comicità dell’indagine sbilenca di un novello Clousoeau. Una storia di ambigua soluzione, nella quale sono presenti sottotesti che spaziano dalla follia, alla crescita, alla guerra, al razzismo, passando per il Male che da entità astratta si concretizza, effetto senza causa. 200 minuti che volano leggeri fino alla complessità quasi strabica del monumentale finale. Memorabile la sequenza del primo funerale, esempio supremo di cinedelirio fra majorette e campanellini. Da vedere. (M.R.)
“24 Heures sur Place” (2014), di Ila Beka, Louise Lemoine
Giugno 2014, Parigi, Place de la République. Performance di sguardi, parole, momenti e ricordi una piazza che cambia, quando cambia Parigi ed il mondo. Ritratti generosi, aperti ad un incontro tra umanità e poesia, gioia ed amarezza. Omaggiando i quarant’anni dall’opere di Malle (con chiari rimondi agli ultimi lavori di Claire Simon) i due autori firmano un film generoso, una dolce dedica, un affresco semplice ma stimolante. (E.N.)
“Carnal knowledge” (1971), di Mike Nichols
Rivisto su grande schermo, Conoscenza Carnale sa ancora esprimere le sue potenzialità nel dipingere tempi di libertà sessuale e decadenza nei costumi. Jack Nicholson, ascesa e declino umano dal college alla quarantina, è la granitica certezza di un’opera dove il sesso è morte, ma anche una dura riflessione sull’amicizia e sulla caducità. Caducità nei fisici, caducità morali, caducità sociali. Per quanto non si possa inserire fra i migliori Nichols, può vantare un finale a dir poco meraviglioso. (M.R.)
“The Canal” (2014), di Ivan Kavanagh
Irish horror nel quale un archivista, sbobinando un vecchio 35mm della polizia, scopre che nella sua casa è stato commesso nel 1902 un efferato delitto. Un incubo di fantasmi e vecchie storie che riaffiorano come ineluttabili. The Canal procede sempre più profondamente nel terrore, mentre lo stile filmico si fa anch’esso via via sempre più sporco e tremolante. Un uso martellante delle musiche rende efficace un film in realtà fatto solo di cliché, solo di addizioni, già visto in ogni singola trovata. Fa paura, sì, ed è più che guardabile, ma in definitiva inutile. La provenienza UK non riesce a cancellare la matrice di quel brutto tipo di Hollywood, da the ring in giù, che sta alla base del film. Evidentemente, le lezioni di Cronenberg, Romero e Carpenter non sono state capite. (M.R.)
27 novembre, giorno 7
“L’enlèvement de Michel Houellebecq” (2014), di Guillaume Nicloux
Michel Houellebecq scrive ed interpreta una divertente commedia ipotizzando un suo stesso rapimento. Eccezion fatta per il negato possesso di un’accendino, lo scrittore viene trattato come un signore in vacanza, fra ottimo cibo, vino abbondante e fiumi di stimolanti discussioni sulle varie forme dell’arte, sulla politica, sulla società. Nonostante non riesca ad uscire dall’ordinario, il film scorre onesto e divertente, risultando un modo gradevole per passare un’ora e mezzo fra sentite risate e riferimenti culturali. (M.R.)
“One Cut, One Life” (2013), di Ed Pincus, Lucia Small
Premetto che è impossibile parlare di questo film, quasi come se fosse violare uno spazio così intimo da essere raggelante per poi fondersi con lacrime che spesso non riusciamo nemmeno più a versare. Ed Pincus è il padre del cinema diretto, uno dei più grandi documentaristi di sempre. La diagnosi di una malattia terminale e il restauro delle sue opere sarà l’occasione per lavorare nuovamente con Lucia Small su un’ultimo film; un testamento, dove il racconto della propria vita diventa opportunità per comprendere il senso profondo dell’esistenza (sua e di tutti). Non bisognerebbe aggiungere altro, tanto meno rinchiuderlo in una categoria (come film). Nessuna parola viene a galla, dall’anima che questa opera ti risucchia, forse solo un grandissimo senso di precarietà come di vita, nell’atto del continuo filmarsi come affermazione dello stare qui, di noi. La libertà del guardarsi per guardare, dell’amarsi per amare, del vivere attravesro un macchina da presa per ricordare. E poi morire, quando non resta che riavvolgere il nastro di tutto ciò che hai visto, di tutte le persone al tuo fianco, e della natura che ti assorbe. Ed è già primavera. Non riesco aggiungere altro davvero, le mani mi tremano forse, tra gli occhi e il cuore. (E.N.)
“The better angels” (2013), di A. J. Edwards
Opera prima dell’assistente di Terrence Malick. L’infanzia di Abramo Lincoln, fra vita bucolica e primi studi. Il film si svela subito come una fotocopia in bianco e nero di Malick: l’allievo copia dal maestro praticamente tutto, dallo stile nei movimenti della steady alle voci fuori campo, dalle colonne sonore classico-minimali al controsole. Seppur visivamente bellissimo, perché in pochi sanno girare con tale grazia, chiarisce quasi subito l’assenza di un’idea di fondo, risultando in sostanza un biopic parziale, concettualmente privo di messaggi e farcito di retorica. La macchina da presa sempre ad altezza bambino, i costanti movimenti e la cura fotografica purtroppo non bastano a coprire il nulla espresso, rivelandosi anzi un’inutile pretenzione aggiuntiva. (M.R.)
“M.O.Zh / The man in the orange jacket” (2014), di Aik Karapetian
Interessante opera seconda lettone. Seguendo i crismi del cinema di genere, a cavallo fra thriller ed horror, il film racconta il male che alberga in ognuno di noi, l’ossessione ancestrale, il rimorso e la potenza del mezzo espressivo cinema. Fra un ribaltamento e l’altro, emergono la vendetta, l’imborghesento, il lusso, l’incubo e l’uomo, spettro senza volto. Un film che gioca su ambiguità e rifrazione, aperto a più livelli di lettura e ancor più interpretazioni. A volte troppo smanioso nel voler stupire a tutti i costi, sa tenere costante la tensione e stimolare intelligentemente il pubblico, risultando una delle visioni più confortanti della sezione After Hours. (M.R.)
“Se sei vivo spara” (1967), di Giulio Questi
Rivisto su grande schermo un film maledettissimo e amato fin dalla fanciullezza. Se sei vivo spara è un western all’italiana che scardina le regole del western all’italiana, presentato in versione restaurata con la restituzione delle sequenze passate, al tempo, sotto le forbici della censura. In un paese senza legge, esegesi di un mondo falso e ipocrita, dipinto da Questi con occhio lucido e acuto, giunge un pistolero mezzo sangue -Tomas Milian- a cavallo fra vendetta, oro, doppiogiochismo, proiettili e guaritori pellerossa. Indimenticabili i raccordi di montaggio, a tratti dichiaratamente folli, e i divertentissimi dialoghi surreali e pungenti. La critica sociale trova forme nuove in ogni singola sequenza, perché “Bere è un po’ come pregare, serve trasporto”, fino alla pioggia dorata fra le fiamme che rimette le cose a posto. (M.R.)
28 novembre, giorno 8
“Coda” di Luis Fulvio (Baglivi)
“Coda è dopo la fine, è countdown, è pelle e pellicola, è 35mm, è digitale (e numérique), è un gioco, è D.I.Y., è pirata, è cieco, è primitivo, è punk, è crimine, è un canto d’amore, è una ferita, è contro il cinema. Coda è unico irriproducibile senza matrice, è scarti, è osceno, è per tutti quelli che hanno lasciato sangue e sudore sui set nei laboratori negli archivi nelle cabine di proiezione. Coda non è.” Baglivi lavora con i relitti del cinema, sovrapponendo pellicole e bande sonore con ardita avanguardia e malinconico amore. Opera unica, in copia unica e già impossibile. Astrazione che rimane umana perché dietro al banco della moviola c’è un uomo (prima che un autore) che da anni lotta, come tanti noi, per il cinema. (E.N.)
“Jack Strong” (2014), di Wladyslaw Pasikowski
Noiosissimo ed offensivo, storicamente ed umanamente, saggetto anticomunista mascherato da spy story, sul quel colonnello polacco Kuklinski che fu fondamentale talpa per i servizi segreti americani negli anni ’70. All’apice della guerra fredda, il film segue il protagonista dalla brillante carriera militare alla decisione di collaborare con l’occidente fino alla fuga, fra le felicitazioni per aver drasticamente danneggiato i piani URSS e la (scandalosa) riabilitazione del ’95, perché avrebbe ‘agito per stretta necessità’. Un’agonia spettatoriale lunga 128 interminabili minuti, scanditi dalla più bieca retorica e dalla canonizzazione di un traditore. Un film di regime, disonesto, falso, tra le visioni più odiate degli ultimi anni. (M.R.)
“Motu maeva” (2014), di Maureen Fazandeiro
Un atto d’amore nei confronti del super8, film sul filmare e sul recuperare. Un montaggio di splendide immagini d’archivio crea un viaggio-storia ipotetico, accompagnato da voci fuori campo e una lettera d’amore materno. Il ricordo si mescola al sogno, vagando fra Africa ed Asia, mentre l’atto stesso di fare cinema prende il sopravvento. La perforazione dell’8mm è visibile sulla sinistra, mentre il fotogramma continua oltre la striscia di fori ai quali allacciare gli ingranaggi: l’immagine sfonda i suoi stessi confini, uscendo dal cinema per diventarne un’essenza purissima. Interessante, anche se troppo innamorato di se stesso e della bellezza del footage per trovare davvero qualcosa da dire al di là di una tutto sommato sterile riflessione su modalità e metamodalità del racconto. (M.R.)
“Nova Dubai” (2014), di Gustavo Vinagre
A metà tra la commedia e il porno gay, un gruppo di ragazzi filosofeggia, tenta di comprare una casa e fa sesso con operai ed agenti immobiliari, consenzienti o meno. La promiscuità -sessuale e umana- dei personaggi si interseca con una regia a tratti disastrosa ed uno script che, pur propugnando la necessità di vivere intensamente gli spazi, ricade malamente su se stesso risultando poco più che una provocazione fastidiosa e gratuita. (M.R.)
“Life After Beth” (2014), di Jeff Baena
Divertente commedia a tinte horror che ricorda lo splendido “Burying the ex” di Joe Dante, ma anche “Shaun of the dead – L’alba dei morti dementi” del terzetto Edgar Wright, Nick Frost e Simon Pegg. Zach è distrutto dalla recente morte della propria ragazza Beth. Rimpianti per le frasi non dette e per le gite mai fatte, finché Beth non torna dando inizio ad un’improbabile e parodistica invasione zombie che scandaglia la sfera dei rapporti di coppia. Una relazione sentimentale assurda, disorientante e disorientata, oltre la vita e la morte, si mescola con la necessità delle azioni, la natura bipolare dell’uomo, gli sbalzi d’umore e la non accettazione della realtà. Girando intorno al rimorso, viene fuori un film estremamente divertente, frizzante, piacevole. (M.R.)
“Kami no tsuki / Pale Moon” (2014), di Daihachi Yoshida
Una stimata bancaria si innamora di un ragazzo molto più giovane, tradendo il marito. Spinta dalla passione e dalle necessità del giovanotto, inizia a rubare alla banca, infilandosi sempre più profondamente in una spirale autodistruttiva. La carne vince sul raziocinio, riuscendo a mutare la natura umana, fino alla rovina sociale, lavorativa e morale. Banale, poco interessante, scolastico, retorico, nettamente troppo lungo. Due ore di noia mortale, per ricordare che -seppur di rado- i film inutili escono anche in Giappone. (M.R.)
29 novembre, giorno 9
“Eau Argentee, Syrie autoportrait” (2014), di Ossama Mohammed e Wiam Simav Berdixan
L’urgenza massima di mostrare e raccontare, l’atto stesso del filmare come unica catarsi possibile. Ogni giorno, in Siria, la gente filma e muore. Ogni giorno, in Siria, la gente filma e uccide. Il film raccoglie questo: mille e uno filmati di mille e uno improvvisati registi, svelando una realtà straziante, di cui il mondo sa troppo poco. Cruda, annichilente, abbacinante: la guerra. Già capolavoro a Cannes e Locarno, Silvered Water-Syrian Self Portrait giunge anche sotto la Mole. Donne e bambini muoiono per strada, nel miagolio di un gatto bruciato. I pestaggi dell’esercito, nella creazione di linguaggio. La videocamera limerebbe tutto. Nettamente fra i film dell’anno. (M.R.)
“Abacuc” (2014), di Luca Ferri
In un mondo morto e spersonalizzato, nel quale il solo residuo antropomorfismo è quello dei manichini, il grasso Abacuc vaga fra il cimitero e una stazione abbandonata. Riceve ogni giorno una telefonata da una voce sintetizzata elettronicamente, che gli ricorda la morte di Stravinskij e la caducità dell’essere umano. Fra grottesche citazioni letterarie e musicali (arie di Doninzetti e Verdi trasformati in una sorta di rap sintetico con tanto di ‘zumpampam’), il film incede, come il protagonista, con la zoppia di un teorema surreale su ciò che non resta del mondo, dell’uomo, della cultura. Girato in uno splendido super8 in bianco e nero, sperimentale nella forma e nella costruzione, il film si distingue per le rime surreali di scheletri e vecchie foto, dimostrando l’effettiva inutilità di ogni catalogazione. Ferri è pretenzioso e distruttivo, quasi disumano nel propinare la morte anche di ogni speranza. Se si riesce ad accettare questo senso passivo di negatività, il film è interessante ed oggettivamente ben girato. Ma una grossa domanda rimane: se è davvero tutto morto, anche la lotta, che senso ha fare ancora del cinema? (M.R.)
“Arcana” (1972), di Giulio Questi
Una santona, suo figlio, rapporti morbosi, la faciloneria del mondo, lo stupro e l’aborto, trance e rane che escono dalla bocca. Questi firma un ‘gioco col pubblico’, film dichiaratamente sghembo e surrealissimo, ma fortemente allusivo all’Italia (non solo) del tempo e alle sue problematiche sociali. Doveroso rivederlo in 35mm, con la restituzione delle scene al confine con l’incesto e quell'”Abbasso il governo, viva l’anarchia!” che al censore Andreotti non era proprio mai andato giù. Capolavoro! (M.R.)
“The last Waltz” (1978), di Martin Scorsese
Ultimo concerto di The Band, dopo 15 anni in tour. Sul palco con loro, i musicisti coi quali hanno collaborato: Neil Young, Neil Diamond, Eric Clapton, Dr. John, Bob Dylan… Una riflessione sulla fine, del tempo, del mondo, della musica. Rivederlo con l’impianto audio di una sala cinematografica era un’esperienza doverosa. Da Helpless a Forever Young, fino al grandissimo finale con tutti insieme sul palco (compreso, a sorpresa su una seconda batteria, Ringo Starr) a cantare e suonare I Shall be Released. (M.R.)
“Jauja” (2014), di Lisandro Alonso
Opera complessa e stratificata sullo spazio, sul tempo, sulla crescita interiore, sull’ostinazione nella lotta, sulla ricerca che tende alla libertà. Viggo Mortensen è un soldato danese unito ai regolari Argentini per perpetrare il genocidio degli indigeni della Patagonia a fine ‘800. Con lui la figlioletta quindicenne, che parte in fuga d’amore con un soldato. ln viaggio per cercarla, mentre la storia si fa Storia, il percorso nella pampa diventa percorso di crescita interiore. Quello di Alonso è un cinema rarefatto, simbolico, filosofico, nella creazione di un film-mondo che mette in discussione anche l’essenza stessa di uomo. In un tripudio fotografico in 16mm, il protagonista procede nel deserto, incontrando personaggi sempre più densi di significante che permettono un percorso geografico in un non-luogo, nel tempo necessario per negare il tempo. Rimangono una radura brulla, protesa verso il cielo, e un soldatino in uno stagno nella ciclicità del tempo scardinato. Semplicemente straordinario. (M.R.)
“The Iron Ministry” (2014), di J. P. Sniadecki
Due anni di viaggio in treno, in giro per la Cina sottoproletaria. Dal macellaio abusivo fra le carrozze al bambino che auspica ridendo la fine del mondo, dall’incedere del carrello del venditore di merendine, coi suoi noodles finiti, alla situazione politica, culturale e religiosa di un Paese smarrito. Già in concorso a Locarno, questa seconda visione conferma tutta la lucidità di sguardo dell’autore, l’estremo interesse del mostrato, e la grazia di una grande regia. (M.R.)
“Le beau danger” (2014), di René Frölke
All’inseguimento di Nornan Manea, scrittore rumeno sopravvissuto ai campi di sterminio e costretto ad abbandonare la sua Romania a metà anni ’80. Frölke gira il diario quotidiano di uno dei più grandi scrittori contemporanei, un cine-libro in cui la parolaapre le porte all’immagine, nello spazio (s)conosciuto della vita che sta tra cinema e letteratura. Un bianco e nero disperso e distante che ristruttura il tempo dell’osservazione primitiva dell’esistere e diventa atto esistenziale di memoria. La didascalia diventa finestra dell’inconscio in un film che è solo esperienza (già passata) come il cinema. (E.N.)
“The conversation” (1974), di Francis Ford Coppola
Migliore chiusura di Festival possibile, La Conversazione si mostra ancora come lucida metafora del Watergate e degli scandali americani tutti. La spia spiata, l’ascoltatore ascoltato, il cacciatore che diventa preda, la vittima che diventa carnefice, ed il rimorso. Un film eccezionale, che è sempre un piacere rivedere. (M.R.)