11 Maggio 2018 -

DIAMANTINO (2018)
di Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt

Diamantino, folle creatura cinematografica presentata alla Semaine de la Critique di Cannes71 con la quale i visionari trentaquattrenni Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt approdano, in co-regia, al lungometraggio d’esordio dopo due lunghe serie di cortometraggi comprensive di due collaborazioni passate, è quello che (non) potrebbe accadere domani. Prima di tutto c’è il calcio, religione moderna fatta di stadi/templi e di calciatori/profeti, e poi c’è una data ben precisa, il 15 luglio 2018 già fissato per la finale della Coppa del Mondo di calcio in Russia, nella quale, nella finzione cinematografica, il Portogallo del fenomeno Diamantino, caricaturale protagonista plasmato sull’immagine pubblica di Cristiano Ronaldo (ma non è difficile leggere, nei suoi ritardi cognitivi e nei suoi problemi con il fisco, anche qualche riferimento nemmeno troppo velato a Leo Messi), si ritrova quando mancano solo cinque minuti al triplice fischio sotto di una rete contro la Svezia – già, proprio la Svezia che ha fatto fuori l’Italia, ma questo alla coppia di registi, uno portoghese nato in America e l’altro statunitense, ovviamente non importa. All’improvviso, seguendo uno sprazzo del suo genio, un’intuizione quasi miracolosa, il campione inizia a correre verso la porta come se gli avversari non esistessero, saltandoli uno a uno in scioltezza fino a essere goffamente atterrato in area. Rigore: le speranze del Portogallo sono tutte riposte nel destro del suo asso, del suo fenomeno, del suo leggendario giocatore. Ma i teneri e soffici cagnolini pelosetti che il candido e infantile Diamantino ha sempre visto sul campo, e in mezzo ai quali ha sempre espresso il suo genio calcistico, sembrano essere spariti all’improvviso, e con loro il talento della stella del calcio, che quasi inevitabilmente tira centrale, mollo, fra le braccia sicure del portiere. Fine del sogno di un uomo e di una nazione, fine di un talento, fine della carriera di un numero 10. E fine della vita di un amatissimo padre, primo tifoso e procuratore «che tu vinca o perda è lo stesso» di Diamantino, colto da infarto subito prima dell’errore dal dischetto mentre litigava con le altre due figlie, gemelle egoiste un po’ sorelle di Cenerentola, innamorate solo del denaro e capaci di tutto pur di ottenerlo sulle spalle del fratello. Compreso venderlo al ministero della propaganda e alla sua perfida cancelliera, con i suoi piani genetico-criminal-imperialisti ai quali è pressoché impossibile che Diamantino sopravviva.

Diamantino è semplice, ingenuo, naif, ma ostinatamente “buono”. Ragiona come un bambino, non saprebbe fare del male a una mosca, usa il cervello al 10% delle normali potenzialità, è facilmente ingannabile e spaventabile, e, pur essendo un sex-symbol nei cartelloni pubblicitari e nell’immaginario portoghese, non ha mai conosciuto l’amore. Vive nel suo mondo fatato, nei suoi giocattoli, nelle sue immagini di affettuosi cagnolini, dormendo fra le lenzuola che portano la sua effigie e giocando per gli infiniti corridoi della sua reggia, inetto con un dono, profondamente sincero nei suoi limiti e nella sua umanità. Anche quando, dal suo opulento yacht, si ritrova di fronte a un gommone di rifugiati, sulle prime non riesce a capire chi e cosa siano, non ha idea della politica, non ha alcuna cognizione del mondo al di fuori della sua famiglia, dei suoi stadi, dei suoi campi, dei suoi buffi animaletti che da sempre lo accompagnano. Ma ora l’angelo è caduto, ha perso le ali, ha perso la faccia. Da eroe è diventato colpevole, responsabile della disfatta, vergogna di un Paese. La prima sezione di Diamantino è folgorante, irresistibilmente spassosa, genialmente visionaria nelle sue continue intuizioni inanellate una dopo l’altra, dal campo di calcio che diventa una sorta di nube rosa nella quale esistono solo Diamantino e i suoi cagnolini pelosi alla coppia (lesbo) di agenti dei servizi segreti che si infiltreranno nella vita del giocatore per indagare sulle sue presunte quanto assurde e impossibili attività illecite di riciclaggio di denaro sporco, dal tenero dipingersi del personaggio del padre alle orribili gemelle «rich bitch» così smaccatamente tronfie nelle loro prevaricazioni, nelle loro urla e nei loro ordini impartiti a Diamantino. Ma, alla lunga, la tutto sommato semplice trama dipanata da Abrantes e Schmidt finisce per perdere progressivamente tono, verve e pregnanza tematica, riducendosi nei fatti a un gioco cazzaro divertente ma (troppo) innocuo, nel quale si entra – e si ride – volentieri ma, allo scorrere dei titoli di coda, ci si ritrova in mano meno di quanto ci si aspettasse. È un gioco che mescola, senza in realtà voler arrivare da nessuna parte al di là del mero intrattenimento surreale e cinedelirante, una fantapolitica impossibile e incolore negli assunti che dimostra tutta l’ingenuità (per non dire confusione politica) di fondo di due autori il cui indiscutibile talento parrebbe tardare nella sua da tempo auspicata e definitiva maturazione, una ricerca di identità personale e sessuale che forse, nel Portogallo LGBT, avrebbe meritato qualcosa in più rispetto al (divertente, ma nulla di più) seno cresciuto a Diamantino in seguito al bombardamento di ormoni con i quali il (neofascista) ministero dell’Interno vuole clonarlo per costruire attraverso le vittorie nel calcio una nuova potenza imperiale e alla doppia identità (falsa/vera, uomo/donna, etero/omosessuale) del “figlio” Rahim/agente Aisha, e non certo in ultimo la realtà dei migranti e dei rifugiati trattata quasi come se fosse un mero espediente narrativo, e non una reale tragedia contemporanea.

Eppure, fra interviste televisive nelle quali Diamantino annuncerà a sorpresa il suo ritiro per adottare un rifugiato, deliranti esperimenti per cercare di estrarre dal campione il gene che lo rende così forte, l’idea di ricreare il nazionalismo dal calcio, riferimenti espliciti all’America trumpiana (parla chiaro in questo senso lo slogan «Make Portugal great again»), volutamente dilettantistiche pubblicità di regime che sfruttano l’immagine del campione per parlare di uscite del Portogallo dall’Unione Europea con tanto di impenetrabile muro da issare su confine con la Spagna, nomi storpiati da chi non può capire di quale intrigo sia vittima e tratti sempre più ermafroditi che, seno contro seno, porteranno il protagonista all’amore, Diamantino scorre come un calderone folle ai limiti del lisergico, confermando tutto quel talento visivo e comico che, da anni, gli autori hanno dimostrato nel procedere delle loro carriere. Certo, non siamo ai (sublimi) livelli di Ennui ennui, dove la critica e la parodia politica avevano ben più consistenza, non siamo ai livelli del geniale Herner Werzog voce narrante del segmento di Abrantes del collettivo Aqui em Lisboa, e forse nemmeno a quelli di A brief history of princess X, principessa “del pisello” diventata scultura, tanto che viene forse da pensare che l’eterno ragazzino Gabriel Abrantes, sempre giovanissimo in volto e nella freschezza del suo cinema, rimanga maggiormente a suo agio su corti e mediometraggi rispetto a una lunga distanza decisamente meno facile da maneggiare, e nella quale è più difficile giungere a conclusioni “utili”. Ma di fronte a Diamantino si ride e nemmeno poco, con le improbabili password con le quali l’agente infilitrata in abiti maschili accede al computer di casa, ai conti offshore a Panama delle sorelle e alle congiure governative, con le fughe in barca a cui seguiranno sms di ulteriori inganni, con le inevitabili gelosie e baci dopo le percosse, passando per dottoresse Lamborghini «come la tua auto» alla stregua di scienziati pazzi che emergono dall’acqua e agiscono fino a pentirsi di fronte all’assurdità del loro stesso piano. E questo, al di là delle possibili delusioni più o meno radicate dopo aspettative che sono sempre e necessariamente alte di fronte a due dei giovani autori più talentuosi e promettenti dell’intero panorama mondiale, non è certo poco. Perché Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt rimangono due diamanti(ni) grezzi, due mine vaganti in giro per il mondo-cinema, due autori dalle potenzialità lampanti e cristalline, capaci di disseminare nei loro lavori più o meno continue intuizioni che sono ogni volta piccole gemme. Sono due (piccoli) geni, che si muovono incontrollati e incontrollabili nel fumo del campo, fra i teneri animaletti che solo loro vedono e che sanno riportare sullo schermo fra goliardia e lucido delirio. E poco importa che il calcio di rigore finisca o meno nel sacco, l’importante è che ci siano sempre per calciarlo, contro tutto e contro tutti.

Marco Romagna

“Tristes Monroes” (2017)
Drama | Portugal
Regista Gabriel Abrantes, Daniel Schmidt
Sceneggiatori N/A
Attori principali Carloto Cotta, Anabela Moreira, Margarida Moreira, Filipe Vargas
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

LONG DAY'S JOURNEY INTO NIGHT (2018), di Bi Gan di Erik Negro
ORO VERDE - C'ERA UNA VOLTA IN COLOMBIA (2018), di Cristina Gallego e Ciro Guerra di Marco Romagna
NIGHTMARE CINEMA (2018), di Alejandro Brugués / Joe Dante / Ryûhei Kitamura / David Slade / Mick Garris di Marco Romagna
I FIGLI DEL FIUME GIALLO (2018), di Jiǎ Zhāngkē di Erik Negro
ASAKO I & II (2018), di Ryûsuke Hamaguchi di Erik Negro
DIVINE WIND (2018), di Merzak Allouache di Marco Romagna