È la perfetta chiusura di un cerchio, il Diabolik – Chi sei? con cui Marco e Antonio Manetti, dopo i primi due già sorprendenti episodi Diabolik e Diabolik – Ginko all’attacco, concludono in crescendo quella che è per ora la loro trilogia sul Re del Terrore. Un’operazione, guardata nel suo complesso così come all’interno di ogni singolo capitolo, sulla carta prettamente popolare e invece profondamente teorica, rischiosa, brillantissima, per molti versi consapevolmente anticommerciale, con cui sfidare e ribaltare apertamente le regole del cinefumetto contemporaneo per ritornare alle estetiche e alle tecnologie pionieristiche degli anni Sessanta (qui coerentemente evolute dal ’63 e ‘64 dei numeri 3 e 16 L’arresto di Diabolik e Ginko all’attacco, sulle cui trame erano rispettivamente ricalcati i primi due film dei Manetti Bros., al marzo 1968 dell’omonimo albo numero 107, fra i più significativi dell’intera saga), ma soprattutto ai linguaggi della narrazione per disegni su carta, con il suo scorrere decelerato, onomatopeico, necessariamente bidimensionale e prevedibile, spezzettato in split screen irregolari e infinite profondità di campo. Un formato ben preciso su cui forgiare storie modulari, fatte di estetiche perfettamente codificate e di patti impliciti con il lettore, che ogni volta gridano la loro natura di finzione, rigorosamente implausibili per ambientazioni immaginarie, tempi, modi e audacia nella realizzazione dei colpi eppure assolutamente chiare e logiche quando ritornano ai momenti cardine che rimettono ogni volta in ordine ogni singolo passaggio. Storie da portare sullo schermo senza mai perdere il gusto tipicamente manettiano per la canzone (qui non c’è il videoclip à la 007 che introduceva i titoli di testa dei primi due film, ma non mancano i Calibro 35 sui titoli di coda ad affiancarsi ai consueti tappeti sonori di Pivio e Aldo De Scalzi), eppure con uno stile perfettamente filologico ricalcato non solo sul fumetto ma su quel ben preciso fumetto, in cui innestare i volti necessariamente glaciali e impassibili prima di Luca Marinelli e poi di Giacomo Gianniotti (anche se forse sarebbe stato affascinante, per quanto il suo stile recitativo atono sia assolutamente perfetto per la parte, cambiare nuovamente attore protagonista anche in questo terzo capitolo per giocare ancor di più con la non-identità del criminale dai mille volti, anche se va detto come questa piccola mancanza teorica sia parzialmente ripagata da un gustoso cameo di Max Gazzè, maschera fra le tante del trasformista Diabolik), magari contrapposti ai giochi di seduzione di Eva Kant, e gli inseguimenti al rallentatore per le strade di una Clerville che da Stato immaginario (seppure da sempre simile all’Italia) diventa un interessante mix di Bologna, Milano e Trieste, quest’ultima perfetta nei suoi promontori sul mare per dare una forma anche alle coste di Ghenf, e poi giù fino ai vicoli della Calabria che in quest’ultimo capitolo guardano evidentemente dalle parti de La finestra sul cortile quando i piani di Diabolik e dell’ispettore Ginko inizieranno pericolosamente ad avvicinarsi fino a coincidere.
Del resto si ispira a tanto cinema illustre del passato, Diabolik – chi sei?. Dagli inseguimenti argentiani (viene in mente Tenebre) del folgorante incipit alle nottate al night in compagnia della spogliarellista con cui guardare apertamente dalle parti del Fernando Di Leo di Milano Calibro 9, passando per un faccia a faccia fra nemici e opposte pulsioni (con tanto di temporaneo accordo improvvisato pur di levarsi dai guai) che quasi sembra quello fra Lupin III e Zenigata ne Il castello di Cagliostro di Miyazaki e poi per il ritorno dei Manetti a Mario Bava, dopo essersi radicalmente discostati dall’estetica pop del suo Diabolik del ’68, con le (false) soggettive ‘slasher’, i colori sgargianti e gli zoom già marchi di fabbrica de I tre volti della paura e Sei donne per l’assassino. Fino al deflagrare improvviso del ricordo, e con lui di un bianco e nero iper-luminoso e al contempo putrido, quasi in odor di Nouvelle Vague eppure pronto a sporcarsi di rosso come nel miglior Sin City. Un bianco e nero che, a ben vedere, è l’ultima e definitiva tappa di avvicinamento al Diabolik fumetto, e che non è un caso che entri proprio nel momento in cui la maschera di impassibilità del protagonista per la prima volta si discosta, lasciando intravvedere la stratificazione dell’uomo anche fragile e sperduto che è sempre stata sotto la scorza del criminale inafferrabile, il suo spettro emotivo, il fuoco che si nasconde dietro al suo sguardo di ghiaccio. In effetti, come si diceva, è già dalla scelta dell’albo numero 107 che si palesa l’ambizione dei fratelli Manetti di chiudere la trilogia scavando sempre più nella psicologia e nell’anima dei personaggi. Un albo particolare, fuori standard, insolitamente lineare nella narrazione che procede diritta sui suoi due binari paralleli del presente e del passato, ma soprattutto un albo insolitamente emotivo, riflessivo, dialettico. Diabolik – Chi sei?, da sempre fra i numeri più importanti della saga creata dalle sorelle Giussani, segna il momento in cui il criminale, sequestrato insieme all’ispettore Ginko da una banda di spietati gangster ancor più efferati e pericolosi di lui, si ritrova faccia a faccia nella stessa stanza con la sua nemesi, entrambi incatenati e certi di morire, e per la prima volta svela al poliziotto e al pubblico la sua storia, il mistero del suo passato senza nemmeno un nome, mentre subito fuori dalla loro prigione Eva e Altea, nemiche pronte a chiamarsi con geniale autocitazione interna alla trilogia e ad allearsi nella reciproca necessità, riusciranno a ordire e a portare a termine il piano per salvare i loro amati. Una progressione che, dopo aver guardato al Re del Terrore attraverso gli occhi dell’amata Eva (reale protagonista di tutti e tre gli episodi già dal 2021 di Diabolik, non a caso incentrato sull’albo in cui la coppia si è conosciuta e innamorata) e le trappole del nemico ispettore (anche se pure in Ginko all’attacco era fondamentale la Eva Kant di Miriam Leone, vera e propria dea-ex-machina di ogni ribaltamento e in generale parte lucida e razionale che risolve i problemi quando l’istinto e la rigida educazione criminale di Diabolik non bastano più, maturità femminile che compensa e salva le limitatezze del maschio primordiale), vira questa volta sul racconto intimista, sull’autopercezione, sulla verità anche dolorosa e contraddittoria di chi, dotato di capacità lungamente allenate e costantemente perfezionate fino a spingerle ai limiti del sovrumano, ha dedicato l’intera sua vita alla menzogna, alla dissimulazione, al furto elaborato, al repentino cambio di identità, all’efferato omicidio di chiunque fosse d’ostacolo. Fino magari a scoprire, anche in lui, un qualche barlume di umanità, radicata ben oltre i sentimenti per cui, grazie a Eva, decide di liberare dopo averlo interrogato e sostituito il tempo necessario per portare a compimento il furto qualche ostaggio che in altri tempi avrebbe senza dubbio ucciso.
È l’umanità di un ragazzo cresciuto solo e fragile su un’isola popolata esclusivamente da criminali, quella di Diabolik, pronto a imparare da chiunque fosse in grado di insegnargli qualcosa (la plastica da far sembrare pelle, i veleni con cui uccidere o togliere la volontà, i congegni elettronici per le fughe, i meccanismi meccanici con cui aprire e chiudere i rifugi più insospettabili) e poi a superare i maestri conscio di dover usare, tradire e uccidere prima di essere usato, tradito e ucciso. Come una pantera, magari proprio quella impagliata dal supercriminale King alla quale Diabolik deve il nome, che attacca invisibile e improvvisa nella notte, uccidendo per puro istinto di sopravvivenza il cacciatore che la sta aspettando per impallinarla. Un’umanità che è propria allo stesso modo dell’ispettore Ginko del sempre perfetto Valerio Mastandrea, ossessionato dalla giustizia dopo aver vissuto un padre giudice corrotto al punto di essere ben disposto a morire pur di sapere Diabolik ucciso insieme a lui, ma ora finalmente disposto a lasciarsi andare, a piangere a un funerale, a essere consolato con baci e abbracci in pubblico senza più bisogno di fingersi un uomo d’acciaio e di tenere nascosta la propria relazione con Altea. La stessa commovente umanità dell’agente Palmer di Pier Giorgio Bellocchio, leale e fedele fino all’ultimo istante al suo dovere e al suo principale. La stessa umanità della Altea di Monica Bellucci, che questa volta si prende la centralità della scena scoprendo la verità a costo di scavalcare un cancello per origliare e saprà risolvere la situazione instaurando un rapporto di fiducia impossibile. La stessa umanità di Eva Kant, che per poter fuggire con Diabolik non potrà fare a meno di sparare ad Altea l’ultimo ago narcotizzante, ma saprà ringraziarla restituendole l’uomo e la collana trafugatale in Ginko all’attacco. Un’umanità fatta di odio, amore, (non) accettazione, confronto dialettico, identità, archetipo, contraddizione, reciproca comprensione, e poi ognuno di nuovo sulla propria strada, secondo quella che è la propria natura, ma un po’ più consapevoli. Forse è questo lo scarto che, dopo i primi due episodi usciti direttamente in sala, questa volta ha fatto finalmente ritornare in mente Marco e Antonio Manetti a un circuito festivaliero che dopo gli ottimi Song’e Napule e Ammore e malavita sembrava averli dimenticati, con Diabolik – Chi sei? presentato nella sezione Grand Public della diciottesima Festa del Cinema di Roma (o Rome Film Fest che dir si voglia, con una nuova denominazione che per molti versi rasenta l’autorete, ma non è questa la sede per parlarne). Una passerella per molti versi doverosa per quello che è il migliore episodio di una trilogia fra le più interessanti espressioni del panorama cinematografico italiano contemporaneo, orgogliosa e consapevole del suo basso costo e della sua cura artigianale, ma soprattutto del suo ben preciso, e riuscitissimo, lavoro di trasposizione non solo di storie e personaggi, ma di un intero immaginario, di un’estetica, di un inesauribile campionario di accessori e congegni in odor di steampunk, perfino di un linguaggio totalmente differente dalle prassi e dalle pastoie delle immagini in movimento. Tanto che viene quasi da sperare che Diabolik – Chi sei? non sia realmente la conclusione delle avventure del Re del Terrore secondo i fratelli Manetti, ma che qualcuno o qualcosa li possa convincere a tornare ancora a Clerville, alla Jaguar E, alla tuta nera che lascia scoperti solo gli occhi, ai pugnali volanti, ai radio-orologi. Viene quasi da sperare che, in una notte come le altre, in un momento a scelta dei 61 anni di ininterrotta pubblicazione mensile, la Pantera nera torni a tirare una zampata improvvisa per rubare un gioiello, una valigia di denaro, una raccolta di monete antiche, in attesa che Ginko, rigorosamente invano, si rimetta ancora una volta sulle sue tracce. Sempre più vicini, sempre più lontani. Sempre più odiati, sempre più complementari. Sempre più ossessionati, sempre più umani.
Marco Romagna