DER NACHTMAHR (2015), di AKIZ
Diretto da un quasi cinquantenne musicista di musica elettronica tedesco, Der Nachtmahr è un interessante frullato di generi e di influenze, un film di culto annunciato e anche un’opera inaspettatamente pop per un ambiente come quello di Locarno68. La scena si apre con la protagonista, Tina, in macchina con le amiche a guardare foto sul cellulare: la foto di un feto mostruoso in un barattolo vitreo, una propria foto, e poi un video fatto con un’applicazione da iPhone che sembra far traslare la foto di Tina in quella del feto.
Arrivano ad una festa. Luci epilettiche e fluorescenti, musica techno roboante come nei più celebri film della french extremity (Sombre (1999) di Philippe Grandrieux e Irreversible (2002) di Gaspar Noè), amici che le fanno vedere video di donne che vengono malamente investite, e altri che la spiano mentre orina per terra. Scappa. Viene investita come la tipa nel video. Si rialza come se niente fosse. Rivive gli ultimi eventi. Riparte. Arriva a casa. Sente dei rumori. Va in bagno. C’è un mostro nel buio. I genitori non la capiscono, credono sia un’allucinazione, la mandano dallo psicologo. Lei continua ad andare in discoteca con le amiche che si drogano. Prova a fare amicizia con il mostro. Ci riesce. Qualcosa va storto. E tutto procede così, frammentario e minimalista, assordante e accecante, mostruoso a causa della confusione nel suo conflitto d’identità: è un po’ un film di fantascienza, un po’ un horror, un po’ un film pop, un po’ un B-movie, un po’ un dramma psicologico e metafisico. Quasi niente è spiegato, tra le immagini allucinanti di AKIZ che ricordano il Korine di Spring Breakers (2012), e ciò non può che portare ad un finale discutibile che annienta le barriere del film d’autore facendo prevalere una decisione narrativa smaccatamente trash.
AKIZ ha cominciato il progetto del film 13 anni fa quando ha concepito l’aspetto fisico del mostro come un’opera scultorea, sulla quale ha lavorato per un anno. Poi è arrivata la necessità di far muovere il mostro e da essa una storia che lo rendesse sensato. C’è voluto un bel po’, ma nel 2015 il progetto ha preso la forma attuale, rivelandosi tra le opere più “informatiche”, “multimediali”, “internettiane” e “pop” degli ultimi anni. Il rapporto con il mostro è anzi più vicino a quello di E.T. (1982) di Steven Spielberg, ma reso grottesco fino alla parodia, con più momenti di shock sensoriale (prevalentemente acustico) che di vero e proprio spavento. Ricorda sotto certi punti di vista il recente Babadook (2014) di Jennifer Kent per come dà una fisicità alla psicosi, trasformandola in ente orripilante e spaventoso ma non privo di umanità e affetto. Qui il mostro potrebbe essere un’allegoria lynchana della paranoia per il relazionarsi con i genitori oppure dell’alienazione tipicamente adolescenziale in un mondo così caotico e cacofonico. Il risultato è un film di giovani su di una crisi per tutte le età, un’opera prepotentemente esuberante e goliardica nella scelta musicale ed estetica, ma che implode ad ogni scena con il vigore di una cavalcata verso un abisso di depressione ansiogena. Ma più che l’ansia traspare proprio il desiderio di vita di Tina, un desiderio di vita genuino che però si traspone nella realtà con lo squallore ormai socialmente accettato della vita di eccessi. Si circonda di amici più o meno simpatici o fedeli, ma non riescono a capire il suo problema, cosa è vero e cosa no. Solo alla fine, quando riesce a mostrare a tutti di non essere strana senza ragione ma di aver davvero visto un mostro (ovvero: di essere davvero alienata quando si trova con i suoi amici, di essere davvero problematica da un punto di vista clinico), viene accettata, anche se c’è chi per arrivare a comprenderla deve usare lo specchio deformante dello schermo dell’iPhone. E il film, nella sua struttura narrativa assurda, è alieno quanto Tina stessa, frenetico quanto la sua vita, bipolare quanto i suoi bioritmi sfasati, grottesco quanto il ritmo stesso della vita che tante sue coetanee vivono nella vita reale. Quello di AKIZ è un film di culto istantaneo, un’opera elettronica a più strati, un vero e proprio gioiellino di cinema pseudo-sperimentale accessibile a tutti.
Nicola Settis