Il Lucca Film Festival è sempre stato un festival dedicato più alle retrospettive che ai prodotti del concorso internazionale; il concorso dall’anno scorso peraltro si è ampliato, non essendo composto soltanto da cortometraggi ma anche da lungometraggi, con il trionfo di un ottimo film come By the time it gets dark a chiudere l’edizione 2017, e tuttavia non possiamo non pensare che la cosa più interessante dell’intera occasione festivaliera rimanga l’approccio ai grandi autori del passato e del presente con tanto di ospiti, incontri, proiezioni speciali. Tra i nomi dell’edizione del 2017, il più importante è sicuramente Olivier Assayas, considerando soprattutto come Oliver Stone (il vero “headliner”) sia probabilmente distante dalla sequela di registi più o meno d’autore e più o meno sperimentali che siamo stati abituati a vedere in sala a Lucca negli ultimi anni, come per esempio Lynch, Cronenberg, Bressane, Friedkin e quest’anno Cristi Puiu. Assayas è tra i più interessanti registi francesi contemporanei, e sicuramente ciò è anche a causa del suo enorme trasformismo cinematografico, atto a far comparire in più versioni e in più mondi le stesse ossessioni e le stesse soluzioni visive e narrative, come il tema della sparizione che in Sils Maria è quasi onirica e nel mélo L’eau froide è invece profondamente romantica. Assayas è un grande regista, anche per come è riuscito a mostrare, sempre in bilico tra Hollywood e il cinema sperimentale a livello internazionale, una certa versatilità nei confronti di molteplici correnti e sottocorrenti filmiche a livello mondiale. Come esempio di ciò non possiamo che ricordare come, presentando Personal Shopper proprio a Lucca, Assayas abbia confessato un suo enorme amore per il cosiddetto cinema di genere, nominando in particolare Cronenberg, Carpenter e Argento che tiene sempre in considerazione come riferimenti importanti, ma allo stesso tempo non può non adorare il cinema cinese d’autore, riguardo il quale non possiamo che ricordare il suo documentario HHH: A portrait of Hou Hsiao-Hsien e la sua passata relazione con Maggie Cheung (ma ora il regista è sposato con Mia Hansen-Løve, la regista di L’avenir, precedentemente attrice in alcuni suoi film).
Guardando retrospettivamente alla carriera di Assayas, Demonlover è tra i suoi film più controversi sia per il pubblico sia per la critica, e anche a causa della sua forte tematica, ovvero il fenomeno della pornografia online, non potevo che esserne personalmente intrigato, non avendolo ancora visto prima del festival di Lucca. Tuttavia, entrare nella sala dell’Auditorium Vincenzo da Massa Carrara, dove le proiezioni sono gratuite, e trovarsi di fronte un file con il formato sbagliato (un 4:3 stiracchiato male in luogo dell’anamorfico 2.35:1) e doppiato in italiano non è stato di certo un piacere, considerata l’importanza nelle retrospettive di avvicinarsi il più possibile alla concezione originale dei film più o meno vecchi proiettati. In particolare ciò vale anche perché Demonlover è un film multilinguistico, principalmente parlato in francese ma con svariati stacchi in inglese e un paio di scene in giapponese. Consci di questo, abbiamo deciso di rendergli giustizia recuperandolo in altro modo, e ci siamo trovati di fronte a un film appartenente al 100% alla corrente della New French Extremity, sottogenere cinematografico nato tra la seconda metà degli anni ’90 e l’inizio del terzo millennio basato sostanzialmente sulla creazione di una nuova estetica in cui la violenza e volendo anche la pornografia possono assumere un valore di forte impatto visivo ed emotivo, attraverso un’analisi umana e sperimentale dei corpi. Philippe Grandrieux e (inspiegabilmente) Gaspar Noè sono probabilmente i due registi più noti di questa corrente, nonostante abbiano approcci estremamente diversi, e oltre ad Assayas in questo film anche registi del calibro di Leos Carax, Bruno Dumont, François Ozon, Catherine Breillat, Claire Denis, Bertrand Bonello e Alexandre Aja hanno prodotto pellicole appartenenti a questo sottogenere. Viscere e sperma, profonde ferite e penetrazioni, luci che accecano e bui in cui annegare: nella New French Extremity tutto è concesso, e anche i riferimenti più espliciti al cinema francese classico (soprattutto i riferimenti a Bresson in Dumont) o alla Nouvelle Vague vengono dissacrati con violenza e a volte, non sempre, anche sapienza.
E sì, Demonlover rientra assolutamente in questo genere anche solo per la visualizzazione molto esplicita delle ossessioni attorno alle quali gira: la pornografia, l’animazione hentai, internet, il mondo del digitale, le primitive pulsioni che creano i conflitti tra il maschile e il femminile. Ma non c’è solo questo, perché la macchina da presa si muove in continuazione, confondendo gli spazi e rendendoli impossibili da comprendere completamente, mischiando l’atmosfera cyber-noir dai risvolti cronenberghiani (l’Hellfire Club del film del resto non è che una sorta di versione digitale meno estrema di Videodrome) a un’ellittica, a tratti incomprensibile narrazione che va avanti per alienanti e ipnotizzanti suggestioni, lasciando nel mistero parte della storia e basando tutta la propria attenzione sui corpi, sugli sguardi, sugli schermi: desideri e ossessioni, omicidi e paura, spionaggio e sotterfugi, seduzioni e ricatti. Sembra davvero di stare in un incubo di un film di Grandrieux (magari Sombre), ma il regista di White Epilepsy basa buona parte della propria poetica sul paradosso dello sguardo, del cosa si deve guardare quando nella manifestazione di un’arte basata sull’osservazione regnano il buio e il fuori fuoco, ovvero l’assenza di visibilità, portando all’assurdità in cui questo stile sfuggente serve a confondere lo spazio tra spettatore e schermo. La confusione in Demonlover è invece molto diversa, perché più che un’alienazione metafilmica si pone, per la maggior parte della sua durata, come una “semplice” confusione geografica in cui il luogo non è mai afferrabile – come non è mai afferrabile neppure il rapporto tra luogo e figura umana. La scomparsa della figura umana (o la sua trasformazione in fantasma), tema onnipresente in Assayas, a parte il cadavere (?) di una donna di cui gli spettatori perdono le tracce, è resa in Demonlover con tre differenti scelte narrative o stilistiche: la fuga del personaggio nel fuori campo, ovvero una sorta di resistenza della pedina rispetto al crudele e onnipotente sguardo pornografico; la scomparsa dell’umanità intesa come solidarietà, positività nei rapporti, onestà, tutte parole che smettono di avere senso sotto l’ombra tragica del proto-digitale; e poi la vera e propria scomparsa della protagonista nel finale, una scomparsa che diventa una ri-rappresentazione di sé nel corpo di qualcun altro che è scomparso.
Demonlover racconta la storia di Diane (Connie Nielsen), che lavora per un’agenzia di distribuzione video che cerca di acquisire i diritti per i prodotti di uno studio giapponese che produce animazione porno. Diane è una fredda calcolatrice e una scrupolosa e losca arrampicatrice sociale che, per motivazioni misteriose, è disposta a macchiarsi dei peggiori crimini pur di avere un ruolo di crescente importanza all’interno dell’agenzia. Le altre importanti figure narrative del film includono: Hervé, socio in affari di Diane con la quale c’è una forte attrazione sessuale; Karen, rivale di Diane che viene da quest’ultima avvelenata; Elise, l’assistente di Karen, interpretata da una sempre bellissima Chloë Sevigny, che disprezza Diane; e la Demonlover che dà il titolo al film, un’agenzia di distribuzione pornografica americana legata anche al cosiddetto Hellfire Club, un sito difficile da accedere contenente pornografia estrema con torture in diretta in tempo reale. Provando a immedesimarsi nell’anno d’uscita del film, Demonlover acquisisce sicuramente un valore profetico e attualissimo: certo, nel 2002 il world wide web esisteva da più di una decade e con esso pure il deep web, nonostante questa sua denominazione abbia cominciato a essere diffusa più tardi. Il deep web (da non confondere con il dark web: la navigazione in incognito), accessibile attraverso browser come Tor e I2P, compone più di 100 volte il numero di dati contenuti nel world wide web come lo si conosce attraverso le ricerche di Google, e contiene prevalentemente diffusione e vendita di materiali illegali, dalla pedopornografia alle droghe pesanti, dalle armi alle webcam di torture, fino persino agli esperimenti sugli esseri umani. Una realtà agghiacciante che in teoria è disponibile per tutti coloro i quali siano dotati di computer, ma che cerchiamo di non attraversare, tendenzialmente, forse perché non ci consideriamo noi stessi dei ‘demonlovers’.
Questa realtà, per il cinema, è doppiamente pesante per il semplice fatto che i brividi perversi che il cinema o comunque l’arte-video a volte può dare (e in particolare quelli dati dalla New French Extremity) sono pericolosamente accantonati da questo materiale proibito e allo stesso tempo di facile portata. Il paradosso dello sguardo pornografico diventa freddamente drammatico anche a causa di quest’invisibilità sfocata à la Grandrieux, in cui il voyeurismo sessuale sembra quasi essere una pratica rilassata e tranquilla rispetto al movimento alienante del mondo intero e della macchina da presa. Come abbiamo visto più di recente sia in Holy Motors di Carax sia in Elle di Verhoeven, l’estetica del neo-digitale e quella della pornografia si stanno sempre di più unendo in un osceno, seducente e al contempo incomprensibile “sguardo del futuro”, non basato più sull’emotività, quanto sul connubio orrido tra la digitalizzazione del mezzo e la disumanizzazione del corpo in una società che continua a destrutturarsi. Demonlover parte da qui, da questa necessità di descrivere un timore estremizzando (anche, di quando in quando, con scelte di montaggio eccessive e pacchiane) la sensazione “horror”-ifica e ipercinetica di un mondo incomprensibile, uno sguardo che vede tutto e nulla, e un insieme di corpi che perdono significato. Assayas rimane ancorato al cinema di genere ma senza che esso lo limiti, uscendo dall’inquadratura e annebbiando i limiti delle immagini, dando una propria lettura personalissima e industriale (v. la colonna sonora curata dal gruppo noise Sonic Youth) a una storia piena di misteri irrisolti e cose non dette, a volte necessarie per costruire alla perfezione l’intrigante bellezza del genere thriller di per sé.
Mentre si giunge inesorabilmente verso un’inevitabile tragica conclusione, con i titoli di coda che continuano sulle tristi note di Could’ve moved mountains dei Silver Mt. Zion, giungiamo a un finale in cui lo sguardo della vittima della pornografia (la vittima della tortura, dello snuff, dello sguardo esterno) sembra osservare i colpevoli, che non sono tanto gli spettatori all’interno del film quanto noi come spettatori. È un’ironica tragedia, come quella dell’omicidio/suicidio surreale visto da poco in Tag di Sion Sono, tutta inserita in quel restituirsi dello sguardo, attraverso il quale Assayas esplicita il paradosso del cinema stesso e di quegli occhi pervertiti verso lo schermo. Che sia una critica all’arte, all’uomo, al nostro occhio o alla pornografia della società è difficile a capirsi, anche perché è difficile capire quanto in questo caso Assayas sia stato consapevole dell’ironia del mezzo, ma è impossibile non rimanere affascinati e angosciati da questo campo-controcampo dell’invisibile e del virtuale, di quella tecnologia che adesso, tra Sils Maria e Personal Shopper, è onnipresente non più come oggetto di critica ma ormai come mezzo di comunicazione, catalizzatore dei nostri lati oscuri. E il mondo continua, triste, e il cinema continua, violento, e lo sguardo si spegne in uno stacco, in uno schermo, in un montaggio invisibile di cattiveria e perversione, tra una donna nuda alla Playstation e una pistola alla tempia a uno stupratore. Senza via di fuga.
Nicola Settis