Sono le estreme conseguenze dell’amour fou già di Buñuel, quelle che Dupieux mette in scena in Deerskin, per le quali per amore – e poco importa che questo amore sia per una giacca – è più che mai lecito ingannare pagando (non) attori con soldi altrui per rubare loro i rispettivi cappotti e la promessa filmata di non indossarne mai più, e può benissimo succedere che un uomo innamorato decida di trasformare, con brillante e spassosa intuizione, una pala del ventilatore in una perfetta katana con la quale combattere contro le altre giacche e chi le indossa come una sorta di vendicatore della notte. Ma andiamo per ordine. È dai tempi dell’incipit di Rubber, storia di uno pneumatico assassino pronto a uccidere con la fora del pensiero chiunque avesse la sventura di incontrarlo, che il geniale e sempre imprevedibile Quentin Dupieux, il Mister Oizo degli ambienti della house e della techno francese, dichiara esplicitamente come il suo approccio al cinema e al surreale che lo permea sia un folleggiante, aperto, divertito e costante inno al nonsense, all’umorismo paradossale, alla componente comica che, volente o nolente, innocente o maliziosa, alberga in tutto ciò che è grottesco. Un grottesco che lega a doppio filo i cani rapiti per amore di Wrong e gli assurdi piedipiatti delinquenti di Wrong Cops, la dissertazione su vero e percepito che si celava fra gli spunti meravigliosamente insensati di Reality e l’interrogatorio notturno del nettamente meno riuscito Au poste!, e che adesso torna con approccio più ambizioso e maturo, che cerca un po’ meno l’estemporaneo della risata facile ed episodica ma si concentra sullo sviluppo di una narrazione unitaria e di una ben maggiore sostanza metacinematografica e (anti)psicologica, nei settantacinque minuti di storia d’amore matto, tossico e disperatissimo fra un uomo (con videocamera) e la sua giacca di Deerskin, apertura della prima Quinzaine des Réalisateurs targata Paolo Moretti a Cannes 2019. Una giacca che è molto più di una giacca, ma è LA giacca, morbida e bellissima nella sua pelle di daino e nelle sue frange meravigliosamente anni Settanta, sorta di variante con cerniera del camoscio di Jon Voight in Un uomo da marciapiede. Una giacca da cui sentirsi protetti, in cui sentirsi come in una seconda pelle, o forse dentro l’unica vera pelle. Una giacca «killer style», 100% made in Italy, rimasta chiusa per quarant’anni in un baule e pagata senza motivo alcuno con tutte le migliaia di euro di risparmi dal protagonista Georges, interpretato da un Jean Dujardin straordinario nel lavorare di sottrazione sul suo consueto gigioneggiare per metterlo al servizio del bizarro, dell’assurdo e dell’illogico, quando dopo aver letteralmente buttato nel cesso la sua ordinaria giacca dell’abito si ritroverà solo con la pelle di daino del suo magnifico capo d’abbigliamento, abbandonato dalla moglie e con la carta di credito bloccata, a guidare per le strade della più sperduta Francia di provincia che brillantemente ricontestualizzano nella (quasi) realtà quotidiana quel mondo/bolla messo in scena da Dupieux nei lavori precedenti.
È una giacca talmente bella e appariscente, quella del protagonista, che non può confondersi fra le altre, ma deve rimanere la sola al mondo, l’unica giacca indossata dall’unico uomo, impossibile da non notare nel suo sgargiante splendore in un amore assurdo che, fra (auto)dialoghi con il giubbotto e inquadrature delle sue frange attraverso le quali cui guardare il mondo, diventa progressivamente la più totalizzante, pura e mortifera ossessione. Un po’ come se gli oggetti, come in una sostanziale rilettura surreale della critica al consumismo e al suo feticismo reificante che sta nei filmati del Dillinger è morto ferreriano, si prendessero una sorta di turpe e perversa vendetta nei confronti dei proprietari che tanto, troppo, follemente li adorano, attratti dalla propria giacca (e poi per dal cappello, dai guanti, dagli stivali e dai pantaloni) di puro daino, da quella liscia morbidezza, da quella languida e delicata tenerezza. Come due amanti che persi nel vortice della passione che nemmeno si accorgono di quello che sta loro intorno, Georges e la giacca vogliono rimanere da soli nell’universo, unici nella loro intimità, inimitabili nel loro trasporto, ineguagliabili nel loro stare insieme e nel comunicarlo al mondo con la vecchia miniDV ritrovata per caso con la quale Georges decide, spinto dalla barista che sogna di diventare montatrice – interpretata dalla sempre magnifica Adéle Haenel – che ammette di aver distrutto Pulp Fiction rimontandolo in ordine cronologico, di improvvisarsi regista. Di un sostanziale e inconsapevole documentario amatoriale che anche nella finzione più assurda è talmente assurdo da sembrare un mockumentary, o forse di un film di finzione di dichiarazioni e giacche rubate che è talmente assurdo da sembrare un documentario sulla follia. Fino all’esplodere, proprio di fronte all’occhio meccanico dell’onnipresente videocamerina del protagonista, del serial killer, della bestia, del matto pronto a uccidere per amore. Del resto, per il protagonista «filmare coincide con fare un film», talmente inconsapevole di quali siano i ruoli e i linguaggi del cinema da dover comprare e studiare, più volte interrotto dai suadenti richiami della giacca, un manuale per bambini, ed è proprio nel suo procedere nel completo e totale sbando così perfettamente contrapposto alla cura nella consueta fotografia slavata e nelle inquadrature di Dupieux che, ben oltre la semplice autoironia, emergono le ambizioni teoriche che stanno alla base del metacinema dell’autore e dj francese, sostanziale completamento di quella aperta dichiarazione d’amore al nonsense di Rubber che pervade di una nuova luce il suo intero percorso nel surreale. Sin dallo sfondamento della quarta parete prima ancora che partano i titoli di testa, l’autore francese chiude con Deerskin il discorso su come il suo prendere apertamente in giro lo spettatore con situazioni e dialoghi alienanti sia sempre stato un ragionare sul mezzo cinema, che è divertissement e intrattenimento ma al contempo un qualcosa che da sempre nei lavori di Dupieux stravolge ogni regola per rimettere in discussione la propria natura e i possibili confini della sua libertà. Con una follia sempre più lucida, sempre più densa di significati che si celano fra i significanti, sempre più profondamente autoriale. Una follia che continua a far ridere a crepapelle, ma che ha nettamente alzato l’asticella delle ambizioni fino all’esplodere dei più fragorosi applausi. La stessa follia della Quinzaine, forse, sempre pronta come nel suo manifesto 2019 a scartare dalla strada maestra alla ricerca del genio.
Marco Romagna