Dodici anni di riprese, una durata fluviale di otto ore e un quarto, un profondo senso di riappropriazione storica, quasi museale, di fronte a un episodio atroce che la collettività, e lo Stato, hanno preferito rimuovere e lasciare ai ricordi personali dei (pochi) sopravvissuti. In mezzo, quella che per ora è stata l’unica incursione di Wang Bing nella finzione, con quel The Ditch che fu – per ovvie necessità di aggirare la censura cinese – “film sorpresa” nella Venezia mulleriana edizione 2010, e che per la prima volta riportava, con rigore e ancestrale tormento, alla realtà dei controrivoluzionari deportati a scopo rieducativo nel Deserto dei Gobi durante la Rivoluzione Culturale di Mao Tse-Tung. È l’altra faccia del “Grande balzo in avanti”, è la natura più dittatoriale del maoismo, è quella completa negazione del dialogo che sconfessa apertamente – grossomodo sullo stesso sentiero sul quale negli anni precedenti aveva finito per sbandare l’Unione Sovietica guidata da Stalin – i più basilari principi marxisti-leninisti. Erano gli anni Cinquanta, e in Cina bastava una denuncia anonima, bastava una sola minuscola opinione non allineata alle decisioni di un Partito magari servito con entusiasmo per decenni, bastava un’accusa anche priva di qualsivoglia fondamento o prova perché un Compagno diventasse automaticamente un militante “di destra”, un reazionario da spedire in un campo di lavoro a cercare di sopravvivere, con i suoi 200 grammi di grano al giorno, alle angherie e alle umiliazioni, al caldo e al gelo del deserto, alla mancanza di un letto e delle minime condizioni igieniche, ai continui compagni morti, alle pressioni psicologiche, all’incertezza, alla perdita della dignità in attesa, spesso vana, di una riabilitazione. O più probabilmente della morte, senza nemmeno poter aspirare a una degna sepoltura. Nasce dagli studi per The Ditch il nuovo Dead Souls, documento storico ambizioso e profondamente politico, anche se, va detto, probabilmente troppo prolisso e meno emotivo rispetto al solito, che Wang Bing ha presentato in apertura delle Proiezioni Speciali del 71mo Festival di Cannes. Nasce dalla ricerca di verità, di dettagli e di esseri umani, nasce dal prezioso e inedito materiale a partire dal quale, otto anni fa, il regista cinese ha scritto e diretto il suo film di finzione. Con la chiusura del progetto del 2010 non si sono chiusi gli occhi di Wang su quel ben preciso momento storico e sui suoi sopravvissuti, e di certo non si è mai spenta la sua videocamera che, pur passando dalla miniDV a formati via via sempre più definiti e dalla pasta sempre più cinematografica, ha continuato a girare tornando sui sopravvissuti, sui loro ricordi, sui loro traumi e sulle loro vite.
Nella filmografia di Wang Bing, documentarista in genere d’osservazione, è piuttosto raro imbattersi in interviste frontali. Così come è raro che, dalla pura contemporaneità, passi al passato. Dead Souls, al contrario, probabilmente complice la sua primissima genesi come materiale da studiare, è invece composto quasi interamente da interviste sugli anni Cinquanta-Sessanta, con la macchina da presa manovrata per lo più dallo stesso Wang che rimane fissa sui volti di chi racconta, di chi torna al passato più doloroso, di chi aggiunge continui dettagli a quella che è sempre la stessa triste storia, sempre diversa ma sempre uguale. Una storia di uomini presi e depredati della propria libertà, costretti a rubare, costretti a uccidere animali, costretti a convivere con la morte, con il fango, con le ossa che ancora oggi emergono dalle dune del deserto, esposte al sole e alla sabbia, e poi all’oblio di una Storia che non ha (avuto) pietà. Testimonianza dopo testimonianza, Wang Bing riporta a un puro livello di realtà quella che era stata la ricostruzione storica di The Ditch lavorando per accumulo, quasi senza tagli, in un apparente non-montaggio che lascia a ogni intervistato il proprio spazio, il proprio nome, il proprio viso, la propria storia personale, quando presente la propria famiglia. C’è chi si dichiara realmente anticomunista e chi è invece stato etichettato magari per 40 o 50 anni come “di destra” senza plausibili motivazioni, c’è chi fa autocritica e chi porta avanti quella difesa che non aveva potuto portare avanti al tempo, ma soprattutto c’è la reiterazione di storie drammaticamente simili, fatte di dettagli orribili di sofferenze e di torture, di «visite» notturne e di nottate a -20° abbracciati ai cadaveri, di fosse comuni e di valigie piene di ossa che «non si vogliono spostare», di scheletri ritrovati ancora con le manette intorno ai polsi e di professori che, pur deportati perché “di destra”, anche dentro i campi si ritrovavano a insegnare la dottrina di Marx. Ma soprattutto in Dead Souls si parla di fame, perché le razioni erano insufficienti, ed era un ben preciso programma governativo portare i dissidenti alla morte per stenti. Non è certo un caso che la stragrande maggioranza degli intervistati lavorasse nelle cucine, dove è riuscita a sopravvivere solo perché riusciva, di nascosto, a mangiare qualcosa in più. E non è certo un caso che, fra i racconti più duri, si parli apertamente di cannibalismo, con gli organi dei cadaveri grigliati e consumati avidamente da chi li trovava per primo. Wang Bing rimane di fronte agli intervistati, fa domande, interroga e si interroga, rompendo totalmente ogni legame con il ritmo cinematografico, negando ogni tipo di sintesi, accatastando volti e microstorie alla ricerca di un (drammaticamente afferrabile, e stordente) tutto. Fino a entrare in campo, prima in uno specchio con la macchina in mano, e poi in un’intervista che diventa piano a due e poi di nuovo stringe sull’anziano protagonista, il cuore del film, il sopravvissuto. Eppure, questa volta, non tutto sembra tornare. Non mancano di certo gli spunti di interesse, non manca di certo lo sguardo, non manca di certo una ben precisa lingua filmica che cerca nella reiterazione la sua stessa essenza, ma Dead Souls parrebbe essere il titolo meno “sentito” in un’intera filmografia di puro amore nei confronti degli uomini, quello meno umano, quello meno commosso. Specialmente dopo quell’assoluto gioiello di strazio e amore che è Mrs Fang, Pardo d’Oro all’ultima Locarno.
Già di per sé, la decisione di rendere Dead Souls una sorta di raccolta di “materiale grezzo” è croce e delizia del film di Wang Bing. Da un lato c’è una ben precisa volontà di giustizia secondo la quale ogni taglio sarebbe stato un eliminare parte dei ricordi di un essere umano, e da questo punto di vista è assolutamente giusto e necessario che sia stato lasciato tutto a costo di far ripetere lo stesso concetto per la decima volta alla decima persona diversa. Dall’altro, però, ci sono l’effettiva schematicità del film e l’altrettanto effettiva e alla lunga estenuante ripetitività delle dichiarazioni, con un’attenzione agli eventi storici e al contesto dei dissidenti politici “rieducati” dalla Rivoluzione Culturale che finisce quasi per allontanare gli uomini che si raccontano. È un Wang Bing in un certo modo smorzato, sopito, disilluso di fronte all’atroce, che nella prima parte del film (diviso nei macrocapitoli Mingshui I e Mingshui II) crea una mappatura umana che si concentra sulle angherie subite ben più che sulla psicologia e sull’emotività dei sopravvissuti, e nella seconda tenta sì di approfondire qualche personalità, di restituire quella dignità per troppo tempo negata e di ricreare agli intervistati nel frattempo deceduti una sorta di nuova vita dopo la morte, crescendo di gran lunga, ma rimane quasi sempre a distanza di sicurezza da quelle che sono le vette a cui il grande documentarista e filantropo negli anni ci ha abituato. Solo in tre momenti, per un totale di poco più di mezz’ora sui quasi 500 minuti del film, la macchina da presa esce finalmente dagli appartamenti raggiungendo (solo parte di) quell’intensità che ci si aspetta da un film di Wang. Il primo è un funerale, nel quale un fratello sopravvissuto ripercorre in lacrime la vita e le ingiustizie subite dalla «vittima della Rivoluzione Culturale» concentrandosi sulla sua lealtà e fedeltà nonostante tutto agli ideali socialisti in attesa che la bara venga spinta, fra le grida di strazio ai limiti dell’insostenibilità di chi è rimasto, in una fossa così simile a quella in cui, con le gambe di fuori, i prigionieri erano costretti a dormire fra malattie e corpi senza vita; il secondo è una sortita di Wang Bing a Mingshui, dove gli abitanti ancora trovano quotidianamente resti umani ai quali garantiscono un tardivo rito funebre fatto di fuoco e di preghiere; il terzo è il (magnifico, questo sì) finale, quando Wang include nel documentario anche la vedova di chi non ce l’ha fatta e da oltre mezzo secolo piange un marito innocente, riguarda insieme le fotografie e le lacrimate lettere di un tempo, e poi si sposta su un altro sito, su un altro campo di lavoro, dove ancora ogni due passi spunta dalla terra un cranio, una tibia, un drammatico lascito di chi non potrà mai tornare. È qui che Wang Bing, abbandonata la frontalità delle interviste, cerca e trova il reale dolore, la reale emozione, il reale senso, come sempre profondamente umano, del suo lavoro e del suo cinema. Dove lo Stato ha imposto l’oblio, Wang riporta i ricordi, il tormento umano, l’orrore provato e non solo mai risarcito (né probabilmente risarcibile), ma per il quale non è nemmeno mai è stato chiesto scusa, fra negazionismi e petti governativi gonfiati. Rimangono le ossa, mucchietto informe che spunta dalla sabbia come un monito, rimangono le testimonianze ottuagenarie di chi, nei dodici lunghi anni di riprese, ha visto la fine delle sue sofferenze. E pazienza se si tratta probabilmente del film meno ispirato di Wang Bing, pazienza se è troppo lungo, pazienza se per lunghi tratti “annoia”. A volte, il documento è più importante del documentario. E Dead Souls, pur con i suoi (inaspettati) limiti, è un documento storico e politico di importanza capitale, è uno squarcio di luce che sussurra sommesso nel silenzio e nell’oscurità, è una doverosa restituzione di memoria, dignità, dolore e giustizia.
Marco Romagna