L’ATTIMO FUGGENTE (1989), di Peter Weir
«Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto».
Henry David Thoreau
Piccola nota personale, dopo la quale tenterò di tornare professionale. L’attimo fuggente per me, Marco Romagna, incallito cinefilo ed essere umano, è sempre stato e sempre sarà un film fondamentale non solo nel percorso cinematografico e critico, ma in quello di vita, ben al di là dei suoi effettivi meriti e ben oltre i suoi probabili difetti. È un film entrato molto presto nella mia casa grazie al glorioso e rimpianto Lunedifilm di quando RaiUno faceva ancora reale servizio pubblico e culturale, ed è un film che nel corso degli anni ho visto un numero imprecisato ma senza dubbio spropositato di volte, in (più) VHS, in DVD, in Bluray, su tubo catodico, su maxischermo e un paio di volte al cinema. L’ho visto sia in pellicola sia in digitale, l’ho visto distratto e concentrato, l’ho visto intero e a pezzi, e lo so quasi a memoria sia in versione originale inglese sia nello – una volta tanto – straordinario doppiaggio in italiano, che a partire dal titolo nettamente più poetico, profondo e centrato rispetto al Dead Poets Society con cui è uscito in tutto il resto del mondo si fa quasi preferire anche da chi, come me, è da sempre oltranzista nel pretendere i film in lingua. Non è fra i titoli più importanti della storia del cinema, e probabilmente, nei suoi (perdonabili) istanti più retorici e in qualche piccola “furbizia” disseminata qua e là, si mantiene a distanza da ciò che in genere si definisce “un capolavoro”. Ma rimane il film che, probabilmente più di tutti, mi ha insegnato moltissimo di (potenzialità del) cinema, di poesia, di rapporti umani, di libertà, di repressione, di illusione. E di gratitudine, perché nella commozione del finale in piedi sui banchi c’è molto più di un saluto, ma c’è la vittoria anche nella sconfitta, c’è la consapevolezza di aver lasciato un segno e di aver formato uomini, e c’è la riconoscenza – «O capitano, mio capitano» – di chi non sarebbe mai riuscito a uscire dal suo guscio.
L’attimo fuggente è un film con il quale sono cresciuto e che è cresciuto insieme a me, dal bambino che non poteva in alcun modo capirlo all’adolescente sfacciato (e, col senno di poi, piuttosto stupido) che rifiutava senza discernimento le autorità al grido “carpe diem”, dallo studente che sognava un professor Keating con il quale imparare «a succhiare tutto il midollo della vita» vivendo intensamente tutto il senso di libertà all’adulto autodeterminato, e forse disilluso, che solo ora del film riesce a cogliere fino in fondo la profonda amarezza. Perché L’attimo fuggente, prima di tutto, è un film sulla caduta delle illusioni, sul conformismo che vince sempre e comunque, sul conservatorismo più bigotto e reazionario che sempre interviene a spegnere ogni focolaio di ribellione, ma questa consapevolezza è arrivata solo dopo, con la maturità, con le facciate, con il giudizio. E in questo crescere ed evolversi insieme, in questo stratificarsi nei punti di vista e nei significati, L’attimo fuggente mi ha insegnato ad affiancare la semiotica alla passione, la poesia all’emozione, l’umanità all’empatia. Facendo emergere quello che era il mio «barbarico YAWP», quello che sono, il mio modo di pensare e di approcciarmi non solo al cinema. Ma per accorgermene dovevo necessariamente salire in piedi su un tavolo e crescere, guardandolo più volte e da ogni possibile angolazione. Fino a farmi da parte, come adesso. Basta parlare di me. Parliamo del film.
Tradizione, onore, disciplina, eccellenza. Questi sono i «quattro pilastri» sui quali si fonda il collegio di Welton, rinomata scuola preparatoria esclusivamente maschile nel 1959 della più alta borghesia statunitense. Un luogo di conservatorismo e austerità, di rampolli e di aspettative, di professori parrucconi e di imposizioni dei genitori che affidano loro i figli. Un luogo di costante repressione, perché in un simile contesto non è concepibile che un diciassettenne possa pensare con la propria testa, e tanto meno sviare dal percorso verso la legge o la medicina già deciso durante la gravidanza della loro madre. Contano solo, appunto, i «quattro pilastri», (in)visibili Colonne d’Ercole al di là delle quali non è concesso spingersi. Peter Weir, sin dalla primissima inquadratura, li mette al centro dello schermo, sui gonfaloni che gli studenti portano in trionfo alla cerimonia di apertura del nuovo semestre, e sin da subito li fa mettere in discussione dai ragazzi che, proibitissima sigaretta alla bocca non appena rientrati nelle loro stanze, ancora non avevano conosciuto Keating e ancora non potevano immaginare quanto il suo approccio anticonformista e ribelle alla tradizione imposta dall’istituto sarebbe stato formativo e fondamentale per il loro diventare uomini. Avevano già ribattezzato i vari “Tradizione”, “onore”, “disciplina” ed “eccellenza” in “travisamento” (licenza più assonante dall’originale “travesty”, che in italiano sarebbe stato letteralmente “parodia”, a ulteriore esempio dell’eccellente e ormai impensabile lavoro certosino di traduzione e di scelta delle voci che rispetta e a tratti accresce il senso poetico e ogni differente emozione dei percorsi di crescita), “orrore”, “decadenza” ed “escremento”, ma il loro era solo un innocente gioco d’adolescenza, del quale non avevano ancora capito la pregnante valenza simbolica.
Ancora non sapevano che con le lezioni del nuovo e bizzarro professore di letteratura inglese, fatte di dialoghi con i vecchi volti e di cambi di punti di vista, di calci a un pallone declamando versi e di camminate in cortile in cui far emergere se stessi, di vecchie abitudini alle quali ridare vita e di Shakespeare secondo Marlon Brando e John Wayne reincarnati nella faccia di gomma e nelle capacità vocali di Robin Williams, di animi poetici faticosamente estratti da un guscio di insicurezze e di «escrementizie» introduzioni – firmate da un fittizio «Pritchard, professore emerito» pronto a classificare le poesie su diagrammi di importanza tecnica – direttamente strappate dai libri di testo e cestinate, avrebbero capito che la poesia è anima, sentimento, passione, e che il vero sostentamento va trovato nel cuore di chi fa parte della razza umana e non nelle regole della metrica. Ancora non sapevano che l’introverso Todd Anderson, entrando a Welton e nel gruppo di amici del suo compagno di stanza Neil, sarebbe uscito dalla sua corazza di timori mostrando un animo insospettabilmente sensibile, artistico e umano; ancora non sapevano che il provocatorio Charlie Dalton si sarebbe costruito l’alter ego Nuanda; ancora non sapevano che Knox Overstreet si sarebbe innamorato follemente della bella Chris fino a conquistarla strappandola al bruto giocatore di football, né che i nerd Meeks e Pitts avrebbero scoperto il loro potenziale umanista al di sotto dei noti successi scientifici. Né potevano sapere, pur potendolo immaginare, che alla fine il “secchione” Cameron avrebbe viscidamente tradito per salvarsi. Ancora non sapevano che si sarebbero ritrovati in una grotta con in mano una vecchia antologia di Keating, a ridare vita a quella fucina di esseri umani pensanti ed emancipati chiamata, a poeticizzare ancora una volta l’originale Dead Poets Society, Setta dei Poeti Estinti, e ancora non sapevano che quell'”attimo fuggente” del titolo italiano sarebbe stata la loro caduca adolescenza e al contempo l’attimo da cogliere in ogni occasione della vita, e poi ancora quella capacità di assaporare ogni istante prima che scorra via diventando ricordo, rimpianto, dolore, mancanza. Perché ovviamente nessuno poteva immaginare che il promettente Neil Perry, una volta scoperta la sua passione rampante per il teatro e diventato Puck nel Sogno di una notte di mezza estate, avrebbe preferito il suicidio proprio con la pistola di quel padre inflessibile che mai gli aveva lasciato alcuna scelta al sostanziale ritiro punitivo in accademia militare a cui sarebbe stato costretto dal giorno seguente per avergli disubbidito.
Keating, troppo avanti per non essere destinato a essere lasciato indietro, insegna ai ragazzi a non lasciarsi sfuggire i «carpe diem», a ragionare, a lasciare emergere liberamente la propria intimità, le proprie potenzialità, le proprie emozioni, la propria unicità, la propria personalità anche artistica, fra immaginazione e passione. Insegna ai ragazzi come «contribuire con un verso» al «grande spettacolo», fra William Shakespeare e «il pazzo con la bava alla bocca» Walt Whitman, fra Oscar Wilde e Henry David Thoreau, fra Percy Shelley e la descrizione che Todd finirà a fare della sua paura, mostro dal quale non basta una coperta sempre troppo corta per difendersi, e di fronte a cui non ci si può che dimenare disperati. Insegna ai ragazzi a tendere sempre e comunque alla libertà, che sia questa personale, di intimità o di pensiero, e insegna loro anche la necessità di saper fare un passo indietro, di non esporsi, di saper discernere fra libera autoaffermazione e incosciente provocazione gratuita, perché proprio nella bravata e nel sentirsi onnipotente di Charlie/Nuanda, pronto a inserire nelle bozze del giornalino scolastico una petizione perché Welton ammettesse anche le ragazze, a millantare una telefonata di Dio in quello che sarebbe stato il momento in cui per lo meno fingere di chiedere scusa e a subire in silenzio le punizioni corporali del preside senza fare nomi, ma avendo ormai in sostanza già dichiarato alle autorità l’esistenza della Setta, sta l’inizio della fine. C’è chi riesce a costruire il proprio (proibito) apparecchio radiofonico sulle note del quale mettersi a ballare, c’è chi salta per i letti fra amichevoli scherzi e istanti di sconforto da ribaltare nella poetica di un servizio da scrittoio «aerodinamico», c’è chi coltiva il suo amore fra poesie, corse in bici e pugni in faccia, e proprio durante lo spettacolo teatrale riuscirà finalmente a stringere quell’agognata mano. E soprattutto c’è chi si ritrova la notte nella grotta, «Vidi il fiume Congo scavare con la testa e una lingua d’oro tagliare la foresta», ad assaporare tutta l’anima dei poeti, tutta l’umanità, tutta la passione della letteratura. E del cinema, e di chi insegna, e di chi cresce mettendo gli insegnamenti in pratica. Fino alla tragedia, alla quale non può che seguire il solito ribaltamento della scala dei valori da parte del conformismo più reazionario, la caduta delle illusioni, la punizione per chi ha osato osare, combattendo quell’ambiente apatico, ingessato e fasullo dall’interno senza adagiarsi sui paletti della tradizione più retrograda.
Proiettato al 71mo Locarno Festival fra i film scelti per celebrare il Pardo d’Onore dallo stesso Ethan Hawke, che con l’impacciato e timoroso Todd Anderson centrava nell’89 il primo ruolo-chiave della sua carriera da attore fatta di collaborazioni quasi sempre al di fuori dei circuiti più battuti con autori del calibro di Schrader, Linklater e Almereyda, L’attimo fuggente è un film imperfetto eppure per molti versi irripetibile e miracoloso, fatto di qualche dialogo probabilmente troppo esplicito fra i professori sull’incapacità di considerare individui i giovani ma anche di un lavoro straordinario sul cast di diciotto-ventenni al tempo sconosciuti, fatto di qualche intoppo tecnico (si veda la neve che scende a velocità incompatibili fra campo e controcampo del dialogo fra Knox e Chris subito prima dello spettacolo teatrale) ma anche di una ben precisa poetica, valsa l’Oscar per la migliore sceneggiatura a Tom Shulman, che fa emergere sogni e passione, e fatto di qualche sviolinata retorica che si insinua fra lezioni, momenti e versi mitigata però da una sincerità assoluta, quella di chi sa di avere ragione nel tenere al centro l’uomo. Keating diventerà il capro espiatorio che avrebbe corrotto i giovani instillando loro quelle idee rivoluzionarie causa (e non cura) del suicidio di Neil Perry, e i suoi discepoli più fedeli, volenti o nolenti, per quanto perdutamente innamorati del loro insegnante e dei suoi insegnamenti, e per sempre grati per averli profondamente cambiati e facendo capire loro il senso delle emozioni, vengono costretti a denunciarlo da quel potere – scolastico, genitoriale, sociale, politico – che ogni volta si autoassolve prima ancora di iniziare a processarsi. Un po’ come l’indecoroso balletto a scaricare responsabilità portato avanti in questi giorni, dopo la tragedia del Ponte Morandi di Genova, dall’attuale governo, fra i selfie, le ovazioni della claque portata ai funerali di Stato e le sconcertanti dichiarazioni sull’immigrazione per sviare l’attenzione pubblica. Ma questa, per fortuna, è un’altra storia, e non è questa recensione, nemmeno se redatta da un automobilista/motociclista genovese ancora a metà fra il costernato, lo scioccato, l’amareggiato e l’incazzato, la sede per scoperchiare il Vaso di Pandora. Meglio pensare al finale (forse retorico eppur) sublime di questo film, a Todd, Knox, Meeks, Pitts e oltre metà classe in piedi sui banchi a salutare «O capitano, mio capitano», mentre il preside (il già hitchcockiano Norman Lloyd) saltella ridicolo a cercare di placare la guerra culturale di chi è ormai adulto, conscio delle proprie possibilità e per sempre legato a quelle lezioni così lontane dalla rigidità inespressive dei «quattro pilastri». Fino al commosso «Grazie ragazzi» di chi è riuscito nella sua missione di vita. E agli applausi di chi, come quei ragazzi, a un film come L’attimo fuggente deve e sempre dovrà moltissimo. Amandolo incondizionatamente e perdonandogli ogni limite, perché cercare di limitare la libertà, la sincerità e il cuore di questo film in un mero giudizio di merito sarebbe come cercare di misurarne la grandezza sullo sconcertante grafico di Pritchard. Ritrovandosi inevitabilmente così, in punto di morte, a rendersi conto di non avere vissuto. Il che, di fronte a un film che insegna al contrario ad assaporare la poesia della vita, sarebbe un errore semplicemente imperdonabile.
Marco Romagna