DEAD FOR A DOLLAR (2022), di Walter Hill
Il film si chiude, e i titoli di testa si aprono, con una doppia scritta, che dice dell’operazione Dead for a Dollar molto più di quanto possa sembrare a un primo sguardo: diretto da Walter Hill – dedicato a Budd Boetticher. Oltre alla firma arriva la dichiarazione d’intenti, la confessione sulla difficoltà nel reperire i fondi per il film, la dedica ad un cineasta, riscoperto tardivamente da una certa cinefilia, che ha fatto del cinema western produttivamente di serie B e a basso costo la caratteristica principale della sua (non lunghissima, praticamente un decennio) carriera. Insignito del premio Cartier Glory to the Film Maker Award, sorta di versione minore del Leone alla carriera sponsorizzato dal noto marchio produttore di gioielli e orologi di pregio, il decano ottantenne Walter Hill, appoggiato al bastone da passeggio fedele compagno degli ultimi tempi, sbarca al Lido alla 79ma Mostra del Cinema di Venezia insieme alla sua nuova opera, presentata in proiezione speciale Fuori Concorso. E il suo ritorno alla regia dopo sei anni non poteva che essere, forse, anche un ritorno al western, genere prediletto con il quale ha deliziato, nel corso degli anni, platee e appassionati del suo Paese e del globo intero; titoli come I cavalieri dalle lunghe ombre e Geronimo furono aggiornamenti d’epoca, gli anni Ottanta e Novanta, dei miti fondanti per l’epica statunitense, sapientemente costruita a tavolino ed espressione massima di quel “soft power” culturale che ha sempre rappresentato la vera forza colonialista della selvaggia superpotenza d’oltreoceano. Se quelli erano aggiornamenti, qui l’operazione è uguale ma diversa: la struttura dello script è ultraclassica, l’aggiornamento investe i personaggi di contorno, minoranze salite al proscenio praticamente alla pari con i “vecchi” eroi. Due ulteriori annotazioni prima di andare nello specifico: verissimo è che personaggi femminili forti e decisi si sono sempre trovati anche nei western dell’epoca d’oro (un esempio per tutti, la Vienna di Joan Crawford in Johnny Guitar di Nicholas Ray) ma rappresentavano un’eccezione, non la regola; il cinema western ha sempre assorbito i valori e la cultura dell’epoca in cui veniva girato, non certo di una presunta “fedeltà storica”.
Con la struttura da serial televisivo della precedente Golden Age della Tv americana, quella di fine anni Sessanta del Novecento celebrata da Tarantino in C’era una volta … a Hollywood che, qualche anno prima, vedeva quasi sessanta produzioni di genere western andare in onda contemporaneamente nei tre canali di cui era allora composto il palinsesto, un laboratorio che formò tanti registi della nascente New Hollywood (la regia di molti episodi dei telefilm The Westerner e The Rifleman servì, per citarne uno solo, a “sgrossare” e formare l’occhio cinematografico di Sam Peckinpah), Dead for a Dollar «torna alla leggenda e ripudia la verità», per citare una celebre battuta de L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford. Pistoleri, esercito Yankee in giacca blu (siamo nel 1897), gamblers, cacciatori di taglie e un Messico violento e arso dal sole, dominato da fetidi proprietari terrieri che amministrano, eccettuate eroiche eccezioni, la vera legge sul campo. Dopo Kurosawa/Leone, citati per il remake de La sfida del samurai/Per un pugno di dollari ambientato negli anni Trenta dei gangster e del Proibizionismo Ancora vivo, qui la matrice è addirittura omerica. C’è una novella Elena di Troia, sottratta al ricco possidente suo marito da Elijah Jones, soldato afrodiscendente e disertore dell’esercito. Sulle loro tracce viene messo Max Borlund (Christoph Waltz), cacciatore di taglie insignito di mandato federale; sulle tracce di quest’ultimo, una volta liberato di galera, viene ingaggiato il pistolero/giocatore di poker Joe Cribbens (Willem Dafoe). Ci saranno cambi di casacca, tradimenti, doppi giochi, fino al sanguinoso finale, dove la sorte dei personaggi rimasti in vita dopo i titoli di coda ci viene mostrata con un riassunto testuale su schermo, come di solito accade nei biopic di uomini e donne realmente esistiti. Una scelta straniante, ma che a nostro parere conferisce grande forza alla chiusa.
Una volta accertata la sostanziale povertà dei mezzi tecnici in campo, come si è già detto, Hill nobilita tutto quel che può, se escludiamo la fotografia abbacinata dal sole e sostanzialmente “televisiva” (ma questa è una scelta ben precisa) di Lloyd Ahern II, poco convincente. Il rumore e l’effetto degli spari è potente e, questo sì, fortemente cinematografico, le battaglie dosano alla perfezione cambi di fuoco e ralenti, i duelli sono secchi e brutali, l’armamentario classico di saloon, scalpitìo di zoccoli equini, puttane da un dollaro e vicesceriffi corrotti e corruttibili è tutto sullo schermo, e regala una sensazione di “ritorno a casa” davvero seducente. Se l’effetto nostalgia funziona, non sappiamo quanti nuovi adepti il film porterà al western tra le nuove generazioni, vista la patina polverosa che le nuove istanze sociali non riescono molto a dissipare. Ma chi si aspetta, tutto sommato, che un nuovo disco dei Deep Purple o degli AC/DC possa portare nuovi adepti al rock e non rappresentare un tardo parco giochi?
La coppia formata da Waltz e Dafoe, statuari nemici ma dotati di grande rispetto reciproco, è portatrice di una moralità tradizionale che i ricconi da questa e da quella parte del Rio Bravo (che sparano alle spalle, senza avvertire, e che meritano di essere ripagati con la stessa moneta) semplicemente non posseggono, impegnati a farsi scudo con uomini ingaggiati dal denaro e pronti a tutto, e convinti che tutto si possa comprare. Il western tradizionale si fondava sulla nobiltà primitiva del coraggio, sui combattimenti come prove d’onore, sulla nostalgia di un passato “sporcato” dalla tecnologia e dal nuovo che avanza; il film di Hill c’innesta sui problemi contemporanei, come superamento del razzismo e questioni di genere. Una piccola/grande opera, insomma, capace di conquistare. Anche grazie alla buonissime prove di tutto il cast (con l’eccezione, forse, di una Rachel Brosnahan un pochino ingessata): Waltz riprende alcune caratteristiche del suo dottor King tarantiniano, Dafoe usa il suo sardonico sorriso per intimorire chiunque gli passi nei paraggi, Benjamin Bratt ritorna dopo tanto tempo sugli scudi. Vista l’età, ogni volta temiamo sia l’ultima occasione di vedere un film di Walter Hill sul grande schermo: speriamo che il vecchio pistolero riesca a sparare ancora qualche pallottola. Almeno una.
Donato D’Elia