30 Giugno 2017 -

DE L’ORIGINE DU XXIE SIÈCLE (2000)
di Jean-Luc Godard

L’origine del ventunesimo secolo, per Godard, è un viaggio nel ventesimo secolo. Commissionato dal festival di Cannes per la sua edizione nel 2000 come apertura per un nuovo millennio di visioni, il corto De l’origine du XXIe siècle prende la propria definizione e la scaraventa lontana dalla propria essenza. Jean-Luc è un visionario, un rivoluzionario, un autore prima di film teorici e politici per la fazione più densa e intellettuale della Nouvelle Vague e poi di politica attraverso le opere con il Gruppo Dziga Vertov come Vento dell’Est (1969). Un regista che va a periodi: il primo, più noto, è il periodo di piena rivoluzione della tecnica in stile Nouvelle Vague, un periodo in cui ogni film, anche quello meno potente, può portare innovazione nella comprensione filosofica dei limiti e delle potenzialità del cinema; il secondo, più didattico e politico, iniziato con il film “di comprensione” La gaia scienza (1968), è anche il più breve ed è il periodo in cui massimamente forma e contenuto si sono mischiati, sostituiti, complessificati, i film erano militanti, ideologicamente anti-borghesi, intesi come frammenti di una direzione precisa che è un cambiamento sociale e dialettico; il terzo è quello della sperimentazione più assoluta, con gli schermi sdoppiati di Numéro deux (1975) al proprio principio, e poi il metacinema nella ricreazione del dipinto di Passion (1982), il profondo studio del rapporto audio/video nell’Orso d’Oro Prénom Carmen (1983) e ovviamente gli ultimi film rivoluzionari dalla grandezza indubitabile, tra Nouvelle Vague (1990) a Eloge de l’amour (2001), e da Film socialisme (2010) al definitivo Adieu au Langage (2014). De l’origine du XXIe siècle parte dal terzo periodo a livello formale, ma è un riassunto anche degli altri due: nel raccontare il futuro, invece di commentare il presente cercando di comprendere il funzionamento del cinema (nascita / vita / morte ed emozioni annesse) come Venezia 70 – Future Reloaded (2013), riassume il secolo precedente, in un viaggio verso il tempo, verso le origini, verso, forse, i fratelli Lumiére.

Mentre in sottofondo risuona il pianoforte suonato da Hans Otte, ci si immerge lentamente nei meandri di 100 anni di Storia ormai svaniti, diventati mero ricordo, flusso di coscienza non dell’individuo ma della collettività del tempo, scanditi da citazioni di Bergson e Bataille. Si parte dal 1990, poi si arriva al 1975, e poi al 1960, al 1945, 1930, 1990, con dei cartelli che rimandano alla mente il cinema muto. È un’opera breve archeologica ma appassionante e poetica (nel senso stretto di poesia del montaggio), che mischia video e pellicola. Si muove ai ritmi di musica come un breve movimento di sinfonia, riassumendo un viaggio nel passato che non ha il retrogusto della nostalgia ma è denso di commozione (teorica) nel raccontare un qualcosa che si è concluso, una rivoluzione che non si è avverata, forse, nonostante centinaia di tentativi, di fervori, di Corazzate Potëmkin. Ci si muove attraverso il tempo con la spazialità dilatata e fuori dal mondo del bambino di Shining (1980), esplicitamente ripreso e messo in scena 20 anni dopo l’horror di Kubrick, in quel corridoio così grande, così alienante, così omnicomprensivo e difficilmente comprensibile. È stato un secolo di orrori. E amore. Ed entrambi collimano, tra gli orrori dei Nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale e Gigi (1958) di Vincente Minnelli. C’è la Nouvelle Vague, l’inizio di Godard stesso, non rappresentato con la sua nascita ma con la nascita del suo cinema, lo sguardo in macchina affascinante di Jean Seberg alla fine di Fino all’ultimo respiro (1960), cioè alla fine di tutto, alla fine della vita del personaggio-Belmondo, ma anche alla fine della vita della Seberg stessa, suicidatasi nel 1979. Il ventesimo secolo per Godard non è il “secolo breve” di cui parla Eric Hobsbawm, che comincia con la rivoluzione d’ottobre del 1917 e finisce con la caduta del muro di Berlino del 1989, ma è un ventesimo secolo riassunto: sprazzi d’immagini d’archivio, onde e ondate, sorrisi, colorate campagne e danze, ma anche carneficine, totalitarismo, stupri, pornografia. Godard vive in un’idea di cinema che va oltre lo strutturalismo, oltre l’idea di completare le immagini attraverso le immagini: è più una contemplazione post-storica, che denuncia il fascismo, frammenta il tempo, scrive “L’Oro” desensibilizzando le sillabe di “L’Origine”. È impossibile, probabilmente, riassumere tutto senza raccontare davvero tutto, ma c’è qualcosa, nell’universalismo e nel minimalismo di Godard, che può suggerire questa presa di posizione, la prepotenza di questo bisogno e della frustrazione nel non riuscire a comprendere tutto –“comprendere” sia nel senso di “capire” sia soprattutto nel senso di “includere”.

Abbiamo sempre amato e citato Godard, ma non ne abbiamo mai scritto. E forse è difficile cominciare con un titolo migliore di questo: anche perché due anni prima di questo corto, Godard confezionò l’opera più ambiziosa e grande del suo terzo periodo, le Histoire(s) du cinèma (1998) che in quattro ore abbondanti e in 8 parti comprendono un intenso viaggio nella storia del cinema sino ad allora: un inno alla soggettività, in cui la scomposizione frammentata del montaggio serve perché ogni spettatore riesca a comporre, con il proprio studio, la propria storia del cinema, a partire dalla confusione necessaria che la settima arte pone. Un film di cui è troppo difficile parlando brevemente, un film anzi in cui forse la cosa migliore per raggiungere una sorta di comprensione è studiarne i dettagli stacco di montaggio dopo stacco di montaggio. Non bisogna dimenticare che tale capolavoro assoluto e indispensabile, oltre a essere completato e in un certo senso concluso nel ritrovo di una terza dimensione Debordiana e interattiva con Adieu au Langage, ha probabilmente tra i propri tasselli proprio De l’origine du XXIe siècle, che con il suo viaggio a gambero per il tempo racconta anche solo parzialmente il recupero di uno sguardo verso il futuro attraverso quello verso il passato. È come un manifesto de Il Cinema Ritrovato, che l’ha proiettato insieme a Paris 1900 (1946-1948) di Nicole Vedrès, di questa necessità di comprendere il mondo e le immagini del mondo attraverso la scomposizione del passato e il passato stesso. C’è cinema e cinema, c’è Storia e Storia, c’è lotta politica e lotta politica, e poi c’è Godard: che sconfigge tutto con il potere di una libertà sconfinata, che si rinnova in continuazione, magari legandosi sempre alle ideologie politiche del passato ma riuscendo sempre a superare le barriere dei cambiamenti formali del mondo, riuscendo sempre a essere nel frattempo un vecchio saggio e un giovane insurrezionista, un mago del montaggio e della regia e un concretissimo (ma poetico) commentatore della realtà. De l’origine du XXIe siècle ci serve come testimonianza di ciò, e la sua necessità si sente sempre di più se entriamo nell’oggi della crisi del digitale, con il crescente bisogno di un qualcosa di paragonabile a una nuova Nouvelle Vague, verso il futuro, verso la rottura di nuove pareti, per toccare schermi e innamorarsi di occhi e sguardi.

Nicola Settis

“Origins of the 21st Century” (2000)
13 min | Short, Documentary | France
Regista Jean-Luc Godard
Sceneggiatori Georges Bataille (quotes), Henri Bergson (quotes), Jean-Luc Godard, Henri Vacquin (quotes), A.E. van Vogt (quotes)
Attori principali Pierre Guyotat, Ronald Chammah
IMDb Rating 7.5

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