DE CHAQUE INSTANT (2018), di Nicolas Philibert

In Essere o avere (2002), la sua opera più celebre, Nicolas Philibert si immerge pienamente all’interno di un ambiente scolastico; impara a conoscere i bambini e gli insegnanti, finendo per sfruttare il mezzo del documentario come oggetto di immersione più che osservazione, anticipando parzialmente la macrostruttura emotiva che si cela dietro l’idea di cinema del Wiseman più recente. Riscuotendo, all’epoca, un successo inaspettato, Philibert indubbiamente è riuscito nell’ardua impresa di toccare le corde giuste per ogni tipologia di spettatore, risultando efficacemente empatico fino a scaturire l’interesse di un pubblico di massa, ritrovatosi all’improvviso rapito dalle vicende intime e vuote di un microcosmo infantile. De chaque instant parte da presupposti analoghi, ovvero dal mondo dell’istruzione, ma sposta il fuoco dalle elementari ai tirocini per diventare infermieri. Philibert segue lo stesso gruppo affiatato di studenti in tre fasi ben distinte, la prima dedicata a studi tecnici del mestiere senza sperimentazioni sul corpo umano, la seconda alle esercitazioni reali sui pazienti e l’ultima ai colloqui tra gli studenti e le studentesse da una parte e delle infermiere senior dall’altra, a discutere l’esperienza sia da un punto di vista di iter formativo sia da un punto di vista di necessità individuali. Tramite questa netta scissione, Philibert attua e gli stesso un iter, crescendo insieme ai giovani studenti di medicina e costruendo con loro un percorso sentimentale, in cui l’esperienza del tirocinio muta continuamente: il gioco infantile diventa professionalità, e si passa per il trauma, la scoperta e la visione della morte. Con questo pseudo-bildungsroman ospedaliero corale e reale, Philibert pone le basi per un mondo cinematografico intimo e chiuso, ma in maniera tenera, con la macchina da presa che non smette mai a guardare al futuro, alla continuazione e al completamento del processo di maturazione dell’individuo: paragonare e De chaque instant a Essere o avere ci ricorda, cosa mai scontata in un mondo di leggi e chiusura mentale, che l’età adulta non ha una data di inizio né una di fine, non si finisce mai di crescere e ogni individuo ha il proprio percorso di immersione nel sistema pur mantenendo coerentemente le caratteristiche della propria personalità.

Si parte da siringhe, stetoscopi e simulazioni di parto. I tirocinanti di infermeria sono tutti giovani, ma appartengono tutti a etnìe diverse e hanno ambizioni diverse, diversi reparti di preferenza per i loro percorsi professionali. Appena i corpi da toccare smettono di essere bambolotti e diventano composti da vera carne umana, la voce del reparto degli studenti diventa più fioca, meno collettiva: si creano dei problemi di comunicazione. Qua comincia la seconda parte del film, che mediante la debolezza fisica dei pazienti racconta le debolezze degli infermieri. Nel flusso creato da Philibert, il confronto diretto col prossimo consiste nell’esperienza formativa, nel fare un passo verso la formazione di un’identità professionale ed emotiva. I risultati raggiunti si vedono nella terza sezione, quando molti degli studenti cominciano a raccontarsi, anche commuovendosi e piangendo, dimostrano la loro umanità in un colloquio lavorativo che ha nel contempo i connotati di una seduta psicoterapeutica e di un confessionale in chiesa. È probabilmente la fase più interessante del film, il momento in cui davvero Philibert penetra dell’umanità del gruppo umano che ha preso come oggetto di studio invece di rimanere legato alla superficie istituzionale. Con i primi piani dei suoi protagonisti, il regista si fa cantore per caso dei sogni infranti e dei futuri complessi di una generazione ancor più complessa, che per certi versi per età corrisponde alla versione cresciuta della generazione presa in analisi in Essere o avere: qua, l’uomo vive attraverso chi ha deciso di usare la propria umanità per aiutare e salvare il prossimo, nel proprio piccolo. E Philibert si chiede, e richiede allo spettatore di domandarsi altrettanto, un doppio quesito: “Come sono rappresentabili, nel cinema documentaristico, l’umanità dei singoli individui e l’esperienza dello scarto generazionale tra passato, presente e futuro?”.

E forse i problemi interni al film si ricavano proprio dalle risposte che si possono dare a questa domanda. Per esempio, possiamo tenere in considerazione il fatto che Philibert, a differenza di molti documentaristi odierni, che sono più cerebrali e inutilmente riflessivi (v., pensando anche solo all’edizione dell’anno scorso del Locarno Festival, al Ben Russell di Good Luck o al Denis Côté di Ta peau si lisse), probabilmente ha uno sguardo davvero pregnante e immediato, privo di filtri poiché al massimo il distacco proviene volontariamente da chi è filmato e non da chi filma. Ma appunto l’immersione, in quest’idea di cinema anti-ideologica e puramente umanista, avviene prima dell’osservazione, e nel suo dipanarsi il mondo di De chaque instant si rivela sempre più esplicitamente come un vago sentore del tipo di mondo non-cinematografico che si respirava in Essere o avere. La tenerezza è sostituita da una parvenza di freddezza, di sguardo istituzionale, ma Philibert non riesce a raggiungere il grado qualitativo e di importanza culturale a 360° che può avere il cinema di osservazione del succitato Wiseman. E questo scompenso si verifica solo ed esclusivamente a causa della diversa prassi lavorativa; Philibert tenta l’immersione, ma la sua ambizione ci porta a un’inclusione solo parziale nell’ambiente che lui ha invece davvero vissuto. Viviamo una visione/fissione incompiuta, e l’apertura anti-onirica che deve essere il frutto del cinema documentaristico si spalanca solo in parte, rivelando un viaggio in tre atti che risulta scomposto e prolisso per il semplice fatto che forse è scarso il microcosmo raccontabile all’interno di questo esclusivo, più massiccio microcosmo. Il cinema continua a vivere e a poter vivere, nonostante questo soffocamento, perché la sincerità nello sguardo costruttivo dell’immersione permane, ma lo scompenso porta al distacco anche da parte dello spettatore – e a questo punto il risultato non può che essere un logos limitato.

Nicola Settis