DAWSON CITY: IL TEMPO FRA I GHIACCI (2016) di Bill Morrison
Dawson City: Frozen Time è, a modo suo, il film più intelligente visto per ora a Venezia, il film più intensamente archeologico, il film maggiormente destinato a rimanere in una “Storia del Cinema” – anche solo per il semplice fatto che la sua genesi è di per sé una ricerca di Storia del Cinema. Durante la costruzione di un casinò nella cittadina canadese di Dawson nell’ultima metà degli anni ’70, sono state ritrovate tonnellate di pellicola sotto terra, risalenti all’inizio del ‘900. Bill Morrison, quasi quarant’anni dopo, fa dunque un lavoro di recupero, atto sostanzialmente ad una narrazione della Storia di Dawson attraverso la Storia di questi film documentaristici e fittizi prevalentemente muti considerati persi (“circa l’80% dei film muti è ormai introvabile”, viene detto), ricreando un vero e proprio tassello di mondo con filmati e immagini d’epoca: facendo vivere la Storia, quella vera, attraverso immagini di essa stessa. È come assistere ad una visita “visuale” in un museo, è come vivere il passato con uno sguardo alieno e magnetico, rimanendo incollati allo schermo anche grazie all’incredibile e potentissima colonna sonora di Alex Somers, sempre in bilico tra il post-rock elettronico e l’ambient di matrice quasi drone — suoni che si mischiavano con fluidità impressionante con gli scrosci catastrofici di un’improvvisa pioggia invisibile sul tetto della Pala Biennale, pioggia che non c’era prima del film e non c’era dopo, come se la Storia fosse un temporale leggendario, che si percepisce ma non si vede, perché si vede solo quello che è rimasto nel presente, si vede solo quel che resta ora e mai davvero quel che è successo prima.
Su carta, l’operazione non sembra tanto dissimile da quella di A Flickering Truth, documentario di Pietra Brettkelly che era a Venezia l’anno scorso e che “narrava” il recupero di pellicole sotto le macerie afghane, e la seguente proiezione di esse all’aperto, tra le rovine, ricreando la meraviglia per un popolo devastato. Ma la Brettkelly montava questa storia impressionante di recuperi (o, meglio, restauri) come una semplice documentazione della rinascita della meraviglia, a volte scadendo, nel montaggio e nell’uso delle musiche, nel retorico, dimenticandosi l’altro cinema per strada e rimanendo troppo in sé stesso; invece Morrison fa l’ottima scelta di comporre sostanzialmente tutto il film semplicemente su di un susseguirsi di riprese (senza audio, di solito, a parte la musica originale del film) e foto d’epoca, facendoci riscoprire la Storia del Film ma anche della pellicola, come se ci fossimo dimenticati qualcosa per strada, parlandoci per esempio della differenza tra la pellicola in nitrato e la pellicola a prova di fuoco che è diventata anno dopo anno sempre più frequente. Come una suite, un’opera, una sinfonia, un flusso. Ma al centro dell’attenzione più che il cinema c’è Dawson e il rapporto tra Dawson e l’immaginario cinematografico: tra il classico cinema Orpheum, che è stato bruciato e ricostruito all’insegna della nascita del cinema parlato, e un’associazione sportiva, la D.A.A.A., che è il vanto della città, dove spesso venivano fatte proiezioni. Di mezzo però c’è il tempo, l’inesorabilità del tempo che passa, la Storia vera dunque, non solo quella dell’immagine ma anche quella dell’uomo; e qui Morrison si concentra su di un interessantissimo approfondimento sul fenomeno socio-culturale della caccia all’oro, mostrando riprese che vanno da Chaplin a capolavori da riscoprire come La sete dell’oro (1928) di Clarence Brown. E, con la Storia dell’uomo, anche la Storia di ciò che circonda l’uomo – o meglio, di ciò di cui l’uomo fa parte, ovvero la natura. Dawson City: Frozen Time è un film profondamente costituito dagli elementi, tra l’acqua della piscina e del fiume in cui la pellicola è affogata e annullata, il fuoco che distrugge la pellicola a volte anche in maniera apparentemente spontanea, la terra in cui la pellicola viene ritrovata negli anni ’70, e l’aria che porta via tutto, accompagna tutto, si respira, si vive. Dunque, la pellicola è come l’uomo: vive, respira, collassa sotto il peso della natura, è effimera. Ma è recuperabile, è ristrutturabile, può diventare meraviglia, può diventare Storia (se non lo è già…), può diventare un pezzo del commovente puzzle museografico e archeologico che è il film di Bill Morrison. Il tutto accompagnato da una narrazione storiografica a volte favoleggiante fatta solo di scritte bianche sull’immagine, che quasi ricordano L’infinita fabbrica del Duomo (2015) di D’Anolfi e Parenti.
Ed è il cinema (o meglio, forse) il montaggio a poter davvero ricreare questa magia, questo recupero. È la magia del tempo andato, ma non è pregna di nostalgia, è anzi una semplice trattazione e manifestazione visuale dei fatti, ricreata attraverso la tecnica della più grande fabbrica di sogni del panorama pop-culturale odierno: il cinema, la settima arte. Riviene in mente il meraviglioso Correspondências di Rita Azevedo Gomes, visto a Locarno quest’anno: entrambi ricostruiscono la Storia grazie al frammentato ma sempre coerente montaggio, che ricrea con connessioni fluide e definite il proseguire degli eventi nel suo microcosmo (Dawson, un’amicizia a distanza tra due poeti portoghesi divisi dall’Oceano Atlantico) avvicinandolo al macrocosmo (la storia del Cinema e del Canada, la filosofia e la poesia in Europa). Ed entrambi non sono troppo dissimili da installazioni, fermo-immagini di fissazioni elettriche, montaggi digitalizzati di pellicola e viceversa, ma sempre con tanto amore, verso l’uomo, verso la fermezza di un momento, di un’immagine, di una possibilità, una parola, un’inquadratura, un volto, uno sguardo, un colore o un non-colore, un grido o un pianto silenzioso, un balletto: una boccata d’aria fresca nel cinema sperimentale contemporaneo, un terremoto di bellezze che sembrano non finire, un’ondata di bianco marcescente nel silenzio, una vampata di Storia.
Nicola Settis