6 Febbraio 2017 -

DAWN OF THE FELINES (2017)
di Shiraishi Kazuya

“C’è chi l’amore lo fa per noia
chi se lo sceglie per professione
Bocca di Rosa né l’uno né l’altro
lei lo faceva per passione”
Fabrizio De André, Bocca di Rosa

Abbiamo già avuto modo di parlare del roman porno nipponico, genere erotico dalla trama articolata e romantica che fra il 1971 e il 1988 vide nascere gli oltre 1100 film che salvarono di fatto la Nikkatsu, storica casa di produzione giapponese, dalle difficoltà economiche che finirono invece per fagocitare gli altri colossi del cinema del Sol Levante. Diversi furono gli autori, fra i quali spicca Noboru Tanaka, che all’epoca si affacciarono al genere, accettando le regole di un budget ridottissimo, una sola settimana a disposizione per le riprese, una durata da fare aggirare intorno agli 80 minuti e l’espressa richiesta di una scena di sesso ogni dieci per avere, per il resto, totale libertà creativa e contenutistica. Ed è così che i roman porno, ben oltre il rapido consumo dei centimetri di pelle scoperta, finirono ben presto per essere intinti nella più pura poetica orientale per parlare, fra politica e struggimento, di sentimenti, di provocazioni, di emancipazione, ma anche di una società nipponica rigida e sessista, delle difficoltà sociali prima ancora che sessuali, dei sensi di colpa e delle perversioni morbose, di lussuria e di morte, del più profondo senso di inadeguatezza dell’essere umano.
Nel 2016 la Nikkatsu, per rinverdire e aggiornare i fasti del roman porno, ha ripreso con la giusta filologia un genere e le sue regole originarie, dando per il resto carta bianca a cinque diversi registi per una serie di altrettanti film reboot non consecutivi e anzi totalmente indipendenti fra loro, ma programmati in Giappone secondo un rigoroso calendario di uscite. Dopo Aroused by Gymnopedies di Isao Yukisada, presentato a Busan e regolarmente distribuito in patria ma ancora inedito in Europa, l’interessante Wet woman in the wind di Akihiko Shiota in concorso a Locarno e il meraviglioso Antiporno di Sion Sono, presentato allo scorso Torino Film Festival e probabilmente già fuori quota per qualità autoriale all’interno della serie di film – della quale mancano pochi giorni al rilascio in patria del quinto e ultimo titolo, White Lily, ritorno dietro alla macchina da presa del creatore di The ring Hideo Nakata e, parrebbe, prima apertura al sesso saffico di questa serie reboot –, il quarto appuntamento con il nuovo eros nipponico è Dawn of the Felines di Shiraishi Kazuya, proiettato al Festival di Rotterdam nella sezione Deep Focus – Regained e direttamente ispirato a Night of the Felines (1972), fra i più celebrati classici a firma di di Noboru Tanaka, di cui l’alba si pone, romerianamente, come seguito della notte, questa volta con le massaggiatrici al posto dei morti viventi. In scena, seppure a distanza di quasi mezzo secolo e con in mezzo la rivoluzione digitale, c’è ancora lo stesso mondo. Un mondo di puttanieri che (non) sfogano le proprie depressioni, un mondo di confessioni a cuore aperto che solo un seno può mettere a nudo, un mondo di telefonate e di direttori/papponi, un mondo di paure, di vendette e di (auto)isolamenti, un mondo di extra a pagamento, di ripicche e di frustrazioni, ma anche un mondo di sentimenti straziati e contrastanti, di autostima distrutta e di solitudine nel mondo, dove nemmeno con la prostituzione il sesso è mera merce, ma è sempre e necessariamente un sentimento: amore, pietà, compassione, comprensione.

A differenza del capolavoro al quale si è ispirato, però, Dawn of the Felines non è un film perfetto. Rispetto a Tanaka, Kazuya non dimostra sempre lo stesso agio nel muoversi in continuazione fra i registri del comico, del tragico e del grottesco, e dove la poetica del film originale aveva genialmente messo in scena, come apice dello strazio, il suicidio dell’omosessuale incapace di avere rapporti con donne – ovvero di essere accettato dalla società che imponeva una moglie – inquadrando la caduta di un ombrello insanguinato, il film di Kazuya non riesce a ottenere la tenerezza sperata con la sottotrama del bambino maltrattato dalla famiglia che metterà in forte crisi il babysitter al quale la madre lo affida per lunghi giorni, risultando quasi posticcio nel cercare qualche buon sentimento in più e pericolosamente sull’orlo del kitsch quando nel cielo si staglierà, speranza del bambino, un enorme giocattolo. Inoltre, dove il montaggio era una delle armi migliori a disposizione di Tanaka – su tutte, la scena di sesso alternata con le giostre e con l’alzarsi in volo degli uccelli –, Dawn of the Felines sceglie di risolvere diverse inquadrature con una macchina a mano particolarmente sporca, che di per sé andrebbe anche bene nel fare emergere il nervosismo della società e dei personaggi messi in scena, ma che nulla c’entra, e ben poco attacca in raccordi di montaggio non sempre efficaci, con la stragrande maggioranza del film girato invece con mano ferma, eleganza e, tutto sommato, minimalismo.
Eppure, al di là dei confronti “scomodi” fra due film molto diversi, gioco magari interessante ma in definitiva sterile anche se suggerito dalla stessa produzione di Dawn of the Felines, dal “Mesunekotachi” in comune nei titoli giapponesi, dalla prosecuzione suggerita dai titoli internazionali e dal Festival di Rotterdam che ha programmato i due titoli consecutivamente, sarebbe estremamente ingiusto attaccarsi a qualche piccola imprecisione formale: quello di Shiraishi Kazuya, per quanto lontano dall’apice del titolo d’ispirazione, è un buonissimo film, e in quanto tale va difeso e sostenuto. È un film che commistiona la commedia sexy con il dolore dell’uomo distrutto dal proprio passato e soffocato dal proprio presente, è un film di paradossi e di dialoghi sul limite del surreale, è un film di aspiranti videomaker che si ritrovano autisti e poi aspiranti gestori di case d’appuntamento, è un film di improbabili direttori dell’agenzia che, in un Giappone di “massaggi”, si ritrovano a chiedere di “dare di più” alle proprie ragazze refrattarie a concedersi, per poi essere i primi a dover pagare la prestazione per allontanare le delusioni una volta finito ogni sogno di gloria. È un film sulla riscoperta del corpo, sulle derive sociali e psicologiche, sulla dignità, sulla morbosità, ma anche sull’amore più intimo e disperato.

Nella vera e propria mappatura sociale che Kazuya costruisce negli incontri delle tre prostitute protagoniste, emerge un Giappone chiuso, disilluso, depresso, impaurito. C’è chi si è rinchiuso da dieci anni nella propria casa circondato da computer come unica apertura sul mondo, si nutre solo di pizza a domicilio e non batte ciglio nel pagare l’extra perché l’“accompagnatrice” gli si conceda senza limiti, come a dire che per quanto la tecnologia possa essere straniante e totalizzante prima o poi serve comunque ritornare al corpo, al fisico, al carnale. C’è il presentatore d’avanspettacolo incapace di far ridere ma con tali doti amatorie che gli si chiede un figlio, magari all’apice di un bondage teatrale, magari appesi alla graticcia. E soprattutto c’è l’anziano distrutto dalla vita e dai sensi di colpa per aver portato troppo tardi in ospedale la sua defunta moglie, ormai poco lucido nell’illogicità della disperazione, che chiama l’agenzia più che altro per avere un conforto, un rapporto umano di qualsiasi tipo, un confessore, un’amica, e che invece troverà un angelo (della vita/della morte). È in lui che il film riesce a costruire una mirabile danza fra eros e thanatos, trovando l’apice della propria sincera umanità in quel capezzolo messo quasi a forza in bocca a chi ormai crede di non poterne mai più avere, in quel perdono immediato dopo lo strangolamento capendo la disperazione che lo aveva portato al gesto violento, e poi nell’ultimo ed estremo atto di pietà, facendo cedere definitivamente quel cuore ormai malandato dagli anni e dalla malinconia. L’anziano cliente vorrebbe raggiungere la sua sposa, vorrebbe morire come parrebbe ormai morto il suo membro, e proprio al momento della morte, quando un tentativo di omicidio diventa tentativo di suicidio, salirà l’ultima e inaspettata erezione, e il sesso diventerà carità, forse eutanasia, senza dubbio poetica cinematografica.
Ma questa società cieca e corrotta, ancora lei, non capirà ancora una volta nulla e griderà all’omicidio. La stessa società che permette a una delle ragazze, con il suo passato drammatico di abbandoni e il suo attuale lavoro illegale, di non avere una casa e di essere costretta a dormire al buio degli internet point; la stessa società violenta, cinica, egoista e mossa solo dall’odore del denaro che costringe chi la abita a macerare quotidianamente, nella speranza che una sveltina anche se a pagamento possa restituire quel minimo di autostima e quel minimo di carne; la stessa società che ora arriva, messa in allerta dalle telecamere nascoste e da un video rilasciato su Youtube per vendicarsi di un violento licenziamento, a chiudere l’agenzia. Fine dei giochi, o forse Dawn of the Felines, l’alba, un nuovo corso. Perché l’unica cosa che conta è il bisogno di sopravvivere, e il bisogno di sopravvivere non può che aprire sempre e comunque alla speranza, ai sentimenti, alla vita. All’amore che esplode su un tetto, “Prendimi adesso o continuerai a farlo pagando”, e che è impossibile da fermare, come non si ferma quel furgoncino che accompagna le puttane/colleghe/amiche fino alla prossima avventura, fino al prossimo passo nel conoscersi, fino alla prossima occasione di dimostrare la propria estrema dignità in un mondo che non ne ha più.

Marco Romagna

“Dawn of the Felines” (2017)
84 min | Drama | Japan
Regista Kazuya Shiraishi
Sceneggiatori N/A
Attori principali Juri Ibata, Satsuki Maue, Michié, Kazuko Shirakawa
IMDb Rating N/A

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