La guerra in Jugoslavia è attualmente uno degli universi narrativi più indiscutibili del cinema balcanico. A distanza di più di vent’anni dalla fine del conflitto la ferita è ancora aperta, profonda, insanabile per le anime che l’hanno vissuta, tragicamente vincolante per le generazioni successive. E’ uno spartiacque storico-culturale che probabilmente continuerà ad avere ancora lunghe propaggini nei futuri presenti dei nuovi paesi ex-jugoslavi. Ne resterà per sempre (e giustamente) una memoria etica, come per tutti i momenti più tragici della storia. Ne resteranno memorie personali per qualche altro decennio. Ne resteranno, in varie misure, conseguenze nella realtà contingente dei paesi coinvolti. Dall’altra parte di Zrinko Ogresta s’interroga esattamente sul procedimento morale attraverso il quale è necessario passare per giungere a una vera conclusione del conflitto bellico: il perdono storico, unica via possibile per mettere fine a una fase tanto drammatica. Alla fine di ogni conflitto è sempre subentrata la necessità di perdonare, svoltare e guardare avanti: non c’è fine della guerra senza perdono, e nemmeno è possibile un’asciutta valutazione di ciò che è accaduto se prima non si chiude con l’urgenza di quel passato. Purtroppo il processo individuale di perdono è assai più lungo e tormentato di quello che in genere avviene in via ufficiale sullo scacchiere politico: i paesi possono pure dichiararsi nuovi e civili coabitanti, ma i cittadini portano in sé lunghe cicatrici, più o meno impossibili da risanare se non tramite un ridisegno della propria volontà di espiazione. Può essere fare l’infermiera per dedicarsi al dolore degli altri per tutta la vita; può essere, dall’altra parte, dedicarsi a un crudele progetto di vendetta trasversale che è tutto fuorché vera espiazione, ma solo una spietata compensazione.
Dall’altra parte, in sala con la distribuzione indipendente di CineClub Internazionale (e con le sue meritorie politiche sulla lingua originale sottotitolata in luogo del doppiaggio) dopo i passaggi a Berlino 2016 e al Trieste Film Festival 2017, sceglie la strada del giallo dell’anima svelandone però tale natura poco per volta. Esordendo su un passo lento e osservativo, Ogresta mostra l’irrompere di una crepa nel placido fluire delle attività quotidiane di Vesna, infermiera di mezza età con due figli: una telefonata, e lo squarcio nel passato si riapre. Sembra quasi una crepa “alla Farhadi”, una banale azione quotidiana che si carica di enormi risonanze. Vesna riceve una telefonata, e poi altre, dal marito tuttora amato, tornato in Serbia al termine della sua pena detentiva in quanto ex-componente delle squadre speciali di Milosevic per le pulizie etniche. La donna si è rifatta una vita a Zagabria coi due figli, mentre un terzo figlio, non reggendo alla vergogna per il padre, si è tolto la vita. Dall’altra parte procede così intarsiando squarci di quel passato in mezzo alla quieta registrazione di una dolorosa quotidianità in cui si cerca di ricostruire un futuro. Ma la macchia di quel passato resta là, indelebile, tanto da dover occultare il proprio cognome fin dove possibile per poter ottenere un lavoro. Ogresta adotta la giustapposizione di long take uno dopo l’altro, lasciando che la realtà abbia il proprio tempo di esprimersi. Tuttavia la scelta del quadro non è mai “neutra”: quasi in ogni ripresa interviene un elemento-filtro a duplicare la messa in quadro, ostacolando o tenendo lontani i personaggi. Vetrate di ospedale, doppi angoli di parete, finestre, parabrezza di auto: tra la macchina da presa e i soggetti vi è sempre qualcosa che rende difficile il vedere, lo rende problematico, ne duplica il sipario. In alcuni casi si sceglie anche di tenere i personaggi ben lontani dentro l’inquadratura, sfruttando la profondità di campo.
Quasi a voler definire visivamente il solco tra l’anima e l’agire, il film di Ogresta ha il grande merito di non adagiarsi nelle facili soluzioni da opera edificante. E’ un’opera sul tema del perdono, non una sua celebrazione. Ne racconta piuttosto il rovello, il desiderio di scendere a patti col dolore e superarlo, e la sua tragica impossibilità. Chi più chi meno, tutti i componenti della famiglia di Vesna devono confrontarsi col pesante fardello della figura di Žarko, marito-padre responsabile di un generale condizionamento delle loro esistenze. E intanto è ancora quotidiano l’imbarazzo quando si sfiorano certi argomenti, quando familiari di vittime di guerra si presentano a casa per avere notizie sui corpi dei loro cari (altro tema fondante del cinema balcanico a tematica bellica: costituiva il nucleo pulsante del bel Snijeg, 2008, di Aida Begić), quando si cerca una raccomandazione per trovare lavoro alla figlia disoccupata. Letteralmente dall’altra parte è altrettanto impossibile il perdono di chi ha subito gli effetti della violenza. Sta infatti nel rovesciamento finale il profondo senso del film, calibrato sulla prigionia esistenziale di chi non può liberarsi del passato. Che sia Vesna rispetto a suo marito, che sia l’unico superstite di una famiglia massacrata. La svolta finale, che di nuovo riporta alla mente gli splendidi puzzle morali di Farhadi, è sulla carta assai intelligente, ma anche fonte di un paio di perplessità: la prima nell’ordine della pura verosimiglianza (possibile non essere in grado di riconoscere la voce al telefono del proprio marito, sia pure dopo tanti anni?), la seconda in ambito di intento autoriale. Solo in quella svolta infatti emerge con più forza una certa rigidità di film a tesi, che vuole esplicarsi a chiare lettere in enorme metafora fin dal titolo.
Chiudendo il film su un pianerottolo diviso dal solco della guerra, Ogresta lascia con l’impressione di aver dato veste narrativa a uno dei tòpoi più assodati nella narrazione del conflitto balcanico: la guerra tra vicini, in senso geografico ma anche strettamente fisico, poiché chi era pacifico coabitante della stessa terra, magari a due metri di distanza e coi giardini confinanti, si ritrovò nemico da un momento all’altro, e i crimini peggiori furono perpetrati proprio da coloro con cui si divideva il caffè fino al giorno prima senza porsi, fino a quel momento, il minimo problema di appartenenza etnica o religiosa. Il vendicatore che presumibilmente sceglie di vivere di fronte alla sua vittima rimanda insomma a questa idea di vicinato improvvisamente bellicoso che ha caratterizzato fortemente la guerra jugoslava. Il nemico abita lì davanti, specchio del nemico introiettato in noi, fatto di memorie e impossibili rappacificazioni (in tale direzione forse è accettabile l’inverosimiglianza della voce al telefono di cui sopra: al fondo Vesna desidera così intensamente soccorrere il marito e soccorrersi da voler credere a quelle telefonate). Così facendo Dall’altra parte si chiude su una nota platealmente ed enfaticamente politica dopo essersi profilato ugualmente fino a quel momento come opera politica senza ricorrere però a eccessive evidenze o messaggi “sovrascritti”. Ciò non intacca la potenza di un film che in appena 85 minuti, e con estrema economia di mezzi, condensa una riflessione lancinante sul dubbio e sulle asperità dell’elaborazione. Invocata a gran voce dai canali ufficiali alla fine di ogni drammatico conflitto e in termini decisamente semplicistici: di fatto un percorso tortuoso, impossibile, impedito, l’anima di fronte a se stessa. Che (non) si riconosce.
Massimiliano Schiavoni