DAHOMEY (2024), di Mati Diop
«26. Io non mi chiamo 26. Perché non mi chiamano con il mio nome? Non lo sanno?», si interroga la voce fuori campo, non certo a caso l’unica in fon-gbe quando tutti gli altri si esprimono in francese o tutt’al più in inglese, con cui la sempre più talentuosa Mati Diop dà voce direttamente al tesoro reale del Regno di Dahomey, durante il suo viaggio di ritorno verso il Benin dopo i lunghi decenni passati oltreoceano come bottino coloniale francese. Una restituzione di appunto ventisei pezzi fra troni, scettri e sculture (su quasi 7000, a sancire un atto dall’indiscutibile valore simbolico di emancipazione e riappropriazione eppure al contempo una sorta di contentino con cui la Francia di Macron pensa di essersi lavata la coscienza), che la macchina da presa della regista, a sua volta francese per nascita e formazione ma mai e poi mai immemore di quelle radici culturali senegalesi ereditate dal nonno Djibril Diop Mambéty fra le principali colonne del cinema africano, trasforma nell’occasione per ragionare ancora una volta dopo il suo sorprendente esordio Atlantique sulla doppia identità di un Paese radicalmente e irreversibilmente modificato dall’esperienza coloniale, sulle cicatrici della Storia, e non certo in ultimo sulla de-sacralizzazione museale di oggetti legati a un contesto e a una cultura, quella vudù, forse ormai irrimediabilmente dispersa. Un percorso fisico e cinematografico fra Parigi e Abomey che, dal viaggio del tesoro del 9 novembre 2021 e dalla pura documentazione dell’evento, apre progressivamente alla stratificazione di un’urgenza politica che parte dall’iniziale estetica de L’infinita fabbrica del Duomo di D’Anolfi/Parenti (le statue lentamente “in volo” lungo i locali del museo per l’imballaggio e il trasporto, la cura degli addetti, la vera e propria festa popolare organizzata all’arrivo per scortare i camion verso il centro espositivo beninese) per virare ben presto verso un cinema assembleare à la Frederick Wiseman (le inaugurazioni ufficiali, e soprattutto la riunione fra i giovani locali che dibattono animatamente sul senso politico e culturale dell’iniziativa, sull’eredità culturale degli avi e sull’irreversibilità dei retaggi coloniali, su quel che è rimasto dell’Africa e dell’Occidente), passando per la pura invenzione poetica e per il realismo magico di quella voce off – pronta quasi sempre a emergere dal buio di uno schermo totalmente nero – che inframezza e punteggia la narrazione impersonificando i simboli materiali di una cultura che non riconoscono più il luogo a cui sono stati restituiti, e quindi il senso di smarrimento, la dicotomia, l’irrisolvibilità dei dilemmi, il rendersi conto che «è ancora notte» e che probabilmente non finirà mai. Sessantasette minuti densi e affascinanti, concreti come il legno dei manufatti e al contempo astratti come la malinconia, con cui raccontare, dando voce a chi vivo o inanimato si ritrova risucchiato nel suo vortice, il senso di disorientamento di fronte alla metamorfosi di un Paese saccheggiato e poi riplasmato a propria immagine e somiglianza da un altro Paese lontano migliaia di chilometri, gli strappi impossibili da ricucire, le cicatrici personali e culturali di un’appartenenza scissa fra la memoria degli avi e una contemporaneità di lasciti imperialisti impossibili da ignorare e tanto meno da estirpare.
È proprio il concetto stesso di simbolo la base da cui partono le principali intuizioni di Dahomey. Un’opera seconda, presentata in concorso alla 74ma Berlinale, che inizia non certo a caso con le micro-Tour Eiffel luminose in vendita sulla Senna come emblema e ricordo di Parigi, per contrapporle al(la piccola parte di) tesoro trafugato, segno tangibile di una Storia e di un’identità culturale, che la Francia ha deciso di restituire ai legittimi proprietari. Un tesoro che non vede l’ora di sentire ancora il profumo dell’Oceano, e che invece al suo arrivo troverà gli stessi identici cemento, neon e palazzoni capitalistici (con altrettanti in costruzione subito di fronte) dell’Occidente, la stessa lingua dei vecchi coloni, la stessa sfilata di politici e potenti sorridenti di fronte alle telecamere, la stessa modernità forzata in cui non ritrovare più quel Paese che aveva dovuto forzatamente lasciare, e che semplicemente non piò più esistere e non esisterà mai più, oramai sostituito da un altro completamente differente. Ritrovandosi costretto anche in patria non a una vera e propria riappropriazione, ma a una vita decontestualizzata sotto una teca, magari finalmente riconsegnato alla sua storia di re, schiavitù e pace fra le tribù e non più superficialmente considerato un semplice oggetto esotico e lontano da esibire come stranezza, eppure (per) sempre lontano dalla sua funzione originaria, dalla sua mistica, dal suo simbolo di potere non solo terreno ma soprattutto religioso, presente sin dai primordi della civiltà umana e spazzato via nel giro di pochi anni. Sospeso fra un universo e l’altro, fra quello che è stato per secoli un mondo e quel cambiamento radicale e inappellabile che lo ha di fatto cancellato con un colpo di spugna, trasformandolo in un pezzo di Occidente e di Europa delocalizzato più a Sud. Un tesoro con quella stessa anima inevitabilmente scissa in due culture della regista, che poi nient’altro è che quella stessa anima inevitabilmente scissa in due culture dei ragazzi beniniesi (anche se il discorso si potrebbe estendere a buona parte dell’Africa) di oggi, discendenti di schiavi che vivono come gli schiavisti, «cresciuti vedendo Tom e Jerry ma nessuna animazione sulla nostra eredità culturale, sui nostri simboli, sui nostri dei e demoni». La loro riunione all’università, seppure alla lunga un po’ didascalica nel verbalizzare da posizioni e anche polarizzazioni contrastanti ogni singolo possibile punto del film senza lasciare nulla di implicito, più ancora che gli interrogativi su come la restituzione di una parte così piccola dei beni trafugati sia un’operazione di facciata insultante o un fondamentale punto di partenza per riottenere anche il resto, oppure come la stessa idea di museo sia in realtà intrinsecamente occidentale, o ancora come l’imposizione della lingua francese, dell’urbanistica e della vita europea abbiano eliso la genuinità dell’immaginario collettivo e culturale locale, svela in realtà l’inevitabilità dei paradossi e delle contraddizioni, l’inconciliabilità di pensieri e visioni distanti come una tradizione ormai perduta e un retaggio coloniale impossibile da cancellare, l’intima lacerazione di chi non sa più a quale mondo e a quale cultura sentirsi di appartenere. La medesima lacerazione del tesoro parlante, nella cui trasformazione da oggetto-simbolo a vero e proprio personaggio Mati Diop trova, ben al di là dell’indubbia cura estetica nell’osservazione del reale, l’idea-chiave del linguaggio cinematografico, della lirica, del sogno, di una potenza di messa in scena con cui riuscire a liberarsi dalle pastoie della retorica e della didascalia per giungere alla pura suggestione. Verso una sorta di stato ipnotico, forse lo stesso delle trance e delle possessioni filmate a molla da Jean Rouch in Les Maîtres Fous, in cui trovare una perfetta corrispondenza di realtà e immaginazione, di materia e di simbolo, di corpo e di anima, di documentario e di rappresentazione, di sincerità e di spontaneità. Di politica e di poetica. Di sogno. Di quella grande e magnifica vertigine che solo lo schermo di un cinema può materializzare e riprodurre.
Marco Romagna