Kiyoshi Kurosawa sposta per la prima volta la sua riflessione (sui corpi, l’immagine e l’assenza) in occidente; e lo fa con un film sottile e sofisticato, aperto a qualsiasi accezione metaforica ma pulsante proprio nella mancanza continua di presenze e nella loro apparizione fotografica, accezione di anime nella provvisorietà, definizione di una realtà polimorfa e stratificata. Il personaggio cardine di quest’ultima ricerca, che giunge in Onde al 34mo Torino Film Festival, è un celebre fotografo di moda che, dopo la scomparsa della moglie/soggetto dei suoi lavori, si dedica a una folle e disperatissima sperimentazione della tecnica del dagherrotipo a grandezza naturale, credendo nel suo dono apparente del fissare su lastra parte della presenza di colu/ei che viene rappresentato. Sarà la figlia ora il soggetto immobilizzato dai cavalletti/scheletri di questa esposizione lunga ore, e allo stesso modo della madre ne subirà il fascino ma anche l’astrazione/attrazione distruttiva di tale processo. Il nuovo e giovane assistente del fotografo pare cambiare le carte in tavola, ma forse non c’è davvero nulla da fare per evadere da quel mondo di immagini che ormai oltrepassano la semplice rappresentazione. Più che dall’internazionale Daguerrotype, bisognerebbe partire dal titolo originale francese (Le secret de la chambre noire) per iniziare ad indagare le traiettorie di questo film, per intuirne il profondissimo rapporto con la riproducibilità tecnica e ancor di più con il misticismo della fotografia, così fisica nelle sue lastre di rame, così preziosa nei suoi cristalli d’argento, così antica e pionieristica nelle sue tecniche di inizio ‘800, così eterna nella sua immutabilità una volta terminato il fissaggio. Allo stesso modo, l’attimo in cui si svela nell’acqua la prima immagine della figlia rappresentata, o il momento in cui proprio lei – di fronte al dagherrotipo della salma di un bambino – accusa il padre di non essere più in grado di scindere reale e fotografato, diventano le porte di accesso di questo noir metafisico e affascinante, che trascende continuamente la narrazione per interrogarc/si, fra i fantasmi della mente e quelli degli affetti che ancora adesso si aggirano per la casa come per vendicare lo sfruttamento dei loro corpi in vita. Cosa è reale? Cosa è fantasmatico? Chi è vivo e chi è morto? E quella donna in elegante abito d’epoca blu che si aggira per la casa e che non tutti vedono, chi è? O forse che cos’é? E soprattutto quanto sanno essere concreti, nella mirabile coerenza della straordinaria filmografia di Kiyoshi Kurosawa, questi spettri che nient’altro sono che i nostri rimorsi di coscienza, la nostra riflessione sulla vita, il nostro ultimo, disperato e illusorio anelo all’immortalità?
Perché Daguerrotype è proprio una questione di immortalità, prima di tutto. Quella casa isolata e gotica che vorrebbero smantellare in una Parigi quasi irriconoscibile, quel manichino cadaverico utilizzato per le estenuanti pose davanti all’obiettivo, quei sommozzatori che scandagliano il fiume alla ricerca di uno svelamento, quella gigantesca camera oscura – “L’unica vera fotografia” – che occupa l’intera cantina con il suo soffietto, l’occhio da una parte e la lastra dall’altra. Tutto forse non esiste, o esiste solo nella nostra precaria percezione di automi esistenziali che ancora si interrogano sulla presenza materica di una fisicità in un tempo e in un luogo determinato. L’oggettivazione di questo cinema si prefigge di resistere alla presenza della morte come vincolo della stessa malinconia vitale di tutte le possibilità sfumate, delle occasioni perse, delle strade non battute. Il vecchio fotografo ha assorbito l’anima della moglie su quelle lastre, uccidendola e rendendola così immortale; lo stesso vorrebbe ora per la figlia, incapsulata nel proprio misticismo botanico e sfiancata dalle lunghe ore di posa che svuotano la sua essenza per donarla all’opera, con tanto di somministrazione segreta da parte del padre di un veleno che la aiuti a stare ferma. Sarà necessaria la terza anima per interrompere questo eterno ritorno di un uguale perverso e magico, rituale immanente e dunque immortale. Così si muore sempre fuori-campo, e in campo (quello doppio inquadratura/fotografia) si viene imbalsamati per vedere restituita la vita anche dopo la morte. Il ribaltamento dei rapporti di predicazione del reale si compie con un giustappunto raggelante ma umanissimo, in cui la camera di Kurosawa stilizza piani sempre diversi, minimali e sottili, a definire sempre uno spazio nuovo e a dilatare un tempo altro, mentre l’uomo – il marito/padre e l’assistente/amante – sembra incapace di elaborare il proprio lutto e ancora vede i propri fantasmi, li ama, li teme, si illude, o forse si sente tardivamente in colpa. Quella ragazza esiste ancora in un appartamento in città, sul greto di un fiume o in una lastra fotografica? Probabilmente da nessuna parte, questo non conta più. Scomparirà – solo al secondo controcampo – al suo presunto matrimonio, donandosi così a quell’immaginario doppiamente passato dell’immagine. Il mortale prende il sopravvento, il fantasma della madre si unisce finalmente con il suo, e al padre demiurgo che non distingue più la vita, nulla resta se non morire. Di loro rimarrà solo quell’intensissimo rapporto dello stare davanti e dietro un obiettivo, e al giovane assistente non rimane nulla se non il non esser morto.
Nello sfaldarsi liquido di una durata, la narrazione della realtà non segue le connotazioni del racconto, e così Kiyoshi riprende le sue continue lacerazioni pronte a emergere come la magia di una sagoma umana densa che si forma in un dagherrotipo ancora accarezzato dalle gocce d’acqua. A un primo sguardo, i protagonisti della scena rimangono immobili, siamo noi a chiederci, prima che possano farlo loro, se quella figura su paesaggio abbia davvero un’anima. Il rapporto tra fotografia/realtà diventa lo stesso esercitato dal dualismo subconscio/coscienza, il cortocircuito continuo dei vettori di comunicazione n/del reale nulla può scalfire rispetto alla sua stessa rappresentazione. Mettere in dubbio la stessa esistenza della naturalità è l’affermazione del simulacro, e l’atto del morire diventa la prova stessa dell’esistenza di un soprannaturale (o addirittura sovra-reale, Kurosawa non può saperlo tanto quanto coloro che segue nel film e coloro che seguono il film). L’immagine di un fantasma è essa stessa la coagulazione della morte e riafferma l’esistenza del (s)oggetto cinema come riappropriazione di un inconscio animista e primitivo non definito, una ri-apparizione dell’esistere in una forma più astratta, pura e luminosa – probabilmente più vera. Kiyoshi Kurosawa dice tutto questo con la messa in scena, prende per mano lo spettatore, lo inquieta, gli mozza il fiato fra apparizioni, fuori-campo, leggeri scavalcamenti e movimenti di macchina quasi impercettibili, eppure fondamentali nella loro funzione subliminale. Basti pensare al pianosequenza della caduta dalle scale della figlia, che inizia con una panoramica per tutta la cantina a seguire il padre, lo fa uscire e fa entrare in campo la figlia iniziando una lenta carrellata verso la scala, poi fa uscire anche l’attrice verso l’alto dell’inquadratura e si ferma lasciandola al di fuori del frame, per poi ricominciare il movimento di macchina, nettamente più veloce, solo dopo che il fotogramma è stato nuovamente attraversato dalla figura femminile in caduta libera e ritrovarla quando ormai giace in fondo alle scale con un rivoletto di sangue che esce dalla testa. Forse spinta, forse svenuta, forse morta: senza dubbio al di fuori del visibile, in penombra nel mistero del celato, al di là del naturale e del reale, in quel luogo nascosto in fondo a tutti noi dal quale iniziano i brividi. Forse Il segreto della camera oscura deve rimanere proprio lì, perché una fotografia non rappresenta solo la funzione propria e permanente del sistema di rappresentante di un dispositivo, ma racconta l’anima del rappresentato e il suo riflettere l’astrazione di un terrore (quello dell’oblio) sempre più vincolato da segni e codici di questa contemporaneità. Tra il respiro dei vortici di Torneur e la maledetta Angelica di De Oliveira, questo primo straordinario esperimento europeo di Kiyoshi Kurosawa ci chiede ancora una volta uno sforzo di (de)codifica, o viceversa, dell’immagine e della realtà, della vita e della morte, della presenza e dell’assenza. Come e più dello spettro di ritorno di Journey to the shore, come e più della spirale di malvagità e follia omicida di Creepy, Daguerrotype è un gioco di specchi splendido e angosciante, mentale e filosofico, materico e metafisico, in cui nessuno dei due lati è quello vero, e in cui entrambe le parti sono spettrali e galleggiano nel vuoto increspato. Che strano caso è il cinema, così inquietante, così misterioso, così sublime, così etereo e così eterno. Impressionato, impressionante e impressionista, così come una lastra fotografica è immortalata e quindi immortale.
Erik Negro