DAFNE (2019), di Federico Bondi

Poco importa che un film lavori un po’ a intermittenza, quando i picchi di luce sono abbaglianti come quelli di Dafne. Poco importa che sia forse un po’ troppo ondivago ed episodico nel suo scorrere, e poco importa che sia forse altalenante nel suo oscillare fra le vette emotive e qualche (in)evitabile sospensione. Quello che conta, nel nuovo lavoro del regista toscano Federico Bondi realizzato a oltre 10 anni dall’esordio Mar nero, sono solo i (tanti) momenti in cui si accende la luce della tenerezza, illuminando e facendo risplendere lo schermo di un’onestà sconfinata, commovente, irresistibilmente umana e infinitamente sincera. Una merce rara, infinitamente rara, da rintracciare all’interno della produzione non solo italiana. Perché a Dafne, piccolo, minuscolo gioiellino dal costo inversamente proporzionale all’enorme cuore, non interessa in alcun modo mettere in luce “la diversità”, di certo non c’è la minima intenzione di sfruttarla per estirpare una facile lacrima allo spettatore e, probabilmente, al regista interessa molto relativamente anche ragionarci. Quello che preme a Bondi è semmai, quasi all’opposto, ribaltare le idee stesse di “normale” e “diverso”, facendo suo lo sguardo della straordinaria protagonista Carolina Raspanti, che nella sua sindrome di Down è diventata scrittrice e ora miracolosa attrice. È per questo che, per approcciarsi al sorprendente Dafne, presentato alla Berlinale 2019 nella sezione Panorama e tornato a casa brandendo orgoglioso il premio Fipresci, bisogna parlare di almeno due “bei film”. Da un lato c’è la cornice – che è appunto per lo meno cornice e mai semplice pretesto – narrativa, capace almeno a tratti di pennellate d’una poetica straziante e lontanissima da qualsivoglia pietismo ricattatorio, e anzi impregnata di una sincerità e di una delicatezza quasi insostenibili. Dall’altro, ed è forse molto più di un lato, c’è lei, Carolina, che nel ruolo di Dafne recita se stessa, la sua vita, la sua personalità, il suo contagioso entusiasmo. Gli elementi di finzione, cuciti e modellati su di lei come un canovaccio lirico da cui accendere l’occhio del documentario antropologico, sono la linea su cui lasciar deflagrare la sua indipendenza, la sua tenerezza e la sua “normalità” assoluta, quella di chi conduce una vita fatta di famiglia, affetti, organizzazione, curiosità, lavoro all’Ipercoop, rapporti umani e spostamenti da sola sugli autobus della città. Come in un ritratto splendidamente slabbrato, in continua dissolvenza fra realtà e finzione, fra la persona e il personaggio, fra Carolina Raspanti e Dafne, che ai ritardi cognitivi cromosomici hanno saputo contrapporre la forza d’animo, il pragmatismo, la dignità, l’impegno, la creatività e una purissima (e costantemente allenata) intelligenza. Quella che prima o poi, dolcemente e senza alcun tipo di forzatura, non potrà che confluire nella più innocente e toccante poesia.

Bastano pochi minuti a Dafne per intenerire fino al turbamento. Basta la protagonista nell’obitorio dell’ospedale, come tutti impotente e sconcertata di fronte al lenzuolo che copre il corpo esanime e il volto della madre. Con tutto l’amore di una figlia cerca invano di risvegliarla, la sfiora, la chiama, ma ben presto si deve arrendere all’evidenza, e quel pupazzo di peluche tanto bello e tanto amato, diventato all’improvviso un ricordo simbolo del dolore, viene scagliato fuori dal finestrino fra le lacrime di chi vuole piangere, vuole sfogarsi, vuole sciogliere il suo strazio, per poi poter ripartire con ben più maturità e discernimento di chi si definisce “normale”. Verso quel lavoro che tanto piace, fra le feste dei colleghi affezionati e ai quali affezionarsi e quell’impagabile sensazione di «creare dal nulla» che anche un’etichettatrice del supermercato, se presa nel giusto modo, può dare. Verso la saggezza di ogni giorno, con la consapevolezza di doversi «piacere abbastanza» e con gli affetti di una vita indipendente, fatta di piccoli viaggi, palestra, rapporti personali, linguaggio forbito, intelligenza e sconfinata tenerezza. Sempre meticolosa, appassionata, concentrata, pragmatica, in gamba. In grado persino di fare le punture, o di correggere le parole sbagliate dal padre. Mentre invano cerca, giorno dopo giorno, di farlo smettere di fumare – e magari non sarebbe male se dicesse addio pure al vino. Ma sa benissimo che non è certo semplice rinunciare ai vizi, per un padre che si è ritrovato improvvisamente vedovo e depresso, incapace di gestire la situazione e ora attonito di fronte alle foto del matrimonio, un brivido lungo la schiena, l’occhio che si fa lucido, la mano, magari con la sigaretta fra le dita, che non riesce a smettere di tremare. Ma sa di avere Dafne, quella figlia straordinaria a dispetto della sua trisomia 21, nelle cui mani mettere anche la propria vita e la propria difficoltosa elaborazione del lutto. Passando magari dall’incontro, a metà del lungo cammino di padre e figlia per i sentieri delle campagne toscane marciando verso quel cimitero dove ora riposa quella che era luce della famiglia, con la locandiera dell’unico e deserto rifugio, in un’occasione di reciproco aiuto manuale e informatico mentre sgorga la confessione, dolce, naturalissima e totalmente priva di retorica, di un padre che al momento della nascita nemmeno riusciva ad accettare l’idea che la sua figlia speciale, ora adorata, fosse «mongoloide, come si diceva allora. Ma poi un giorno mia moglie me l’ha messa davanti». Ora Dafne, forse senza nemmeno rendersi conto della poesia del suo gesto, porta al collo l’anello nuziale della mamma, si sente «nuda nell’anima» di fronte a un deposito di carbone che pare quasi consacrato come una cripta, dissemina abbracci, tenerezza e la sua contagiosa simpatia fra colleghi, parenti, amici e guardie forestali incontrate lungo il cammino. Fino al finale devastante, sublime nella sua lirica straziata, protesa alla ricerca di un soffio vitale dove la vita non c’è più in quel palloncino da conservare gelosamente come una reliquia, come un ultimo respiro chiuso e annodato nel lattice, come una consapevole illusione, come un occhio che si fa lucido, come una lacrima d’amore che delicatamente scorre lungo una guancia. Come l’ultimo campo e controcampo su un sorriso d’amore e mancanza. Un sorriso vero, sincero, puro, rigonfio di sentimenti e di reale commozione. Che poi, a ben vedere, nient’altro è che un’ulteriore, nuova e sempre sublime declinazione di quella magia inspiegabile che, tanti anni fa, ci ha commossi fino a farci perdutamente innamorare del cinema. Ciò di cui siamo sempre alla ricerca, visione dopo visione.

Marco Romagna