CUORE SELVAGGIO (1990), di David Lynch

Se nel 1986 Velluto Blu aveva fatto discutere la critica e il pubblico a causa delle sue tematiche controverse e dell’atteggiamento di David Lynch nei confronti della sessualità, la baraonda mediatica scatenata da Cuore Selvaggio non fu legata tanto a motivazioni etiche quanto al senso di sconforto generale che ebbe il pubblico alla prima visione al Festival di Cannes nel 1990. Era un film troppo folle, troppo libero e grottesco per i gusti della critica, che ancora non si era abituata né alla profondità dello sguardo del regista nei confronti dell’America dimostrata dal lungometraggio precedente né all’idea che egli, insieme a Mark Frost, avesse cominciato a lavorare a una serie tv. L’episodio pilota di Twin Peaks, infatti, era già stato girato e trasmesso un mese prima di Cannes, e la rivoluzione del piccolo schermo portato dal mistero dell’uccisione di Laura Palmer aveva già colpito l’immaginario collettivo statunitense nonostante i dubbi e i sospetti del pubblico che meno riusciva a immaginare l’idea di una serialità d’autore. Lynch era sulla bocca di tutti, per il suo coraggio nell’intraprendere le tortuose strade dell’assurdo e per il suo mesmerizzante talento visivo. Quando Bernardo Bertolucci, definito da Enrico Ghezzi “il più grande regista di giurie di sempre”, annunciò che il premio principale di Cannes, la Palma d’Oro, sarebbe andato appunto a Cuore Selvaggio, ci furono più fischi che applausi, ci fu più disapprovazione che clamore. E il capo degli indignati fu Roger Ebert, già principale detrattore di Velluto Blu, che definì il film un “lurido melodramma”, accusando il regista di disonestà. Cuore Selvaggio è il film più satirico di Lynch, quello forse più vicino a essere una commedia, nonostante la sua violenza e la sua crudeltà, e anche in ciò sta la sua grandezza, nella sua animalesca capacità di riassumere ossessioni estetiche in una sorta di flusso continuo senza via di scampo. Il film, tratto dal romanzo omonimo (Wild at Heart è il titolo originale) di Barry Gifford, primo di una serie di romanzi ambientati nello stesso universo narrativo e con molti personaggi in comune, fu proposto al regista dall’amico produttore Monty Montgomery, e questi tosto si innamorò del progetto nonostante la sua immersione nel progetto di Twin Peaks e soprattutto la sua pre-progettazione di 3 lungometraggi che non ebbe più modo di dirigere a causa della bancarotta di Dino De Laurentiis e di altre sfortune economiche: questi film erano One Saliva Bubble, un noir basato su un romanzo anni ’40 e il celebre Ronnie Rocket, che sarebbe dovuto essere il suo secondo film dopo Eraserhead (1977) e che non è ancora stato ufficialmente abbandonato. Quando Montgomery per la prima volta contattò Gifford, il romanzo non era ancora stato concluso, e il produttore mandando il manoscritto completo a Lynch pochi mesi dopo immaginava una co-produzione con regia curata dal romanziere, non aspettandosi che il regista sarebbe stato così velocemente coinvolto in questa profonda e violenta storia d’amore, al punto di curare personalmente e individualmente la sceneggiatura cambiando completamente la visione di Gifford e trasportando rispettosamente tutto il suo approccio realista nell’ambito delle deformazioni surrealiste. Lo scrittore amò questa scelta e questo cambiamento al punto di collaborare nuovamente con l’autore di Missoula per la sceneggiatura di Strade Perdute (1997).

In Cuore Selvaggio sono presenti, sia tra gli attori sia tra i collaboratori più tecnici, svariati nomi riconoscibili per altre collaborazioni con il regista: nel cast si possono notare innanzitutto Laura Dern e Isabella Rossellini (all’epoca compagna dell’autore) che erano reduci di una prima collaborazione con Lynch in Velluto Blu, ma anche Sheryl Lee, Sherilyn Fenn e Grace Zabriskie che erano già apparse nel pilota di Twin Peaks da una parte e dall’altra David Patrick Kelly e Harry Dean Stanton che avrebbero avuto maggiore importanza nella serie più tardi, e poi, in un surreale cameo, anche Jack Nance, già volto riconoscibile per essere stato protagonista di Eraserhead e per essere apparso in quasi ogni altro progetto di Lynch fino a quel momento; e poi il direttore della fotografia Frederick Elmes, anch’egli importante per la resa di alcune delle immagini più belle di Eraserhead, il montatore di Twin Peaks Duwayne Dunham e il grande compositore di colonne sonore Angelo Badalamenti, tutti e tre individui chiave per la grandezza di Velluto Blu. La trama del film racconta un amore impossibile e assurdo nella sua prepotenza anarcoide, un amore in cui il regista penetra in profondità con un romanticismo forse ineguagliabile nel resto della sua filmografia: i protagonisti sono il criminale individualista Sailor (Nicolas Cage all’apice della sua caratteristica e unica carriera attoriale) e la piccolo-borghese Lula (Laura Dern), la cui truffaldina madre Marietta è interpretata dalla vera madre della Dern, Diane Ladd. Sailor riesce a scampare a un tentato omicidio ordito dalla stessa Marietta, che lo vuole far fuori in quanto complice di un suo complotto passato conclusosi con la morte di suo marito, e ci riesce assassinando brutalmente un sicario e finendo dunque in prigione per svariati anni. Lula lo va a prendere dal carcere e scappa con lui verso un tentativo di libertà, ma vengono inseguiti dalle isteriche trame di Marietta, lasciando alle loro spalle una scia di sangue. Il film scorre al ritmo di musica, passando con fluidità, a causa di una colonna sonora complessa e geniale, dal pathos sentimentale di Badalamenti a siparietti musical con Nicolas Cage che canta (con la sua voce!) Love Me e Love Me Tender di Elvis Presley, e poi dall’heavy/thrash metal dei Powermad al rockabilly di Chris Isaak, poi personaggio chiave in Fuoco cammina con me (1992). Durante la stesura della sceneggiatura, Lynch diede un tocco originale e personale alla sua visione del tutto con riferimenti espliciti ai personaggi de Il mago di Oz (1939) di Victor Fleming e King Vidor, fino a rendere il proprio film quasi una sua parodia in chiave pulp. Insomma, Cuore Selvaggio è come una favola ambientata all’inferno, in una continua ricerca di un amore che non rinnega i continui riferimenti a una serie di simboli integrati nella mentalità statunitense: simboli in egual misura positivi (e plastici) e negativi (e pessimisti nel loro cruento realismo), come ad esempio Elvis e Marilyn Monroe che sono stati la principale fonte di ispirazione per le interpretazioni rispettivamente di Cage e della Dern.

Lo sguardo del regista verso questo mondo che per Lula è «wild at heart and weird on top» (ovvero un mondo che “ha un cuore selvaggio e del tutto incomprensibile”, nella traduzione italiana) non è uno sguardo intinto in un opinionismo morale definito. Lula e Sailor sono mostrati quasi come un personaggio unico, tra i due c’è una comunicazione costante, sia verbale sia corporale ed erotica, in unione sempiterna che mischia in egual misura il tragico con l’idealistico: sono entrambi ribelli che scappano dall’assurdo ma sono necessariamente essi stessi assurdi, e a mandarli avanti è il desiderio di sconfiggere questa follia intrinseca cercando il meno possibile di ricorrere alla violenza e all’eccesso. Chiaro, l’eccesso c’è (e pure da parte loro), ed è isterico e anche genuinamente terrificante nei morbosi piani orditi da Marietta, messi in scena sia attraverso strillanti urla dall’effetto prevalentemente farsesco sia attraverso tesissime scene di omicidio in cui il fattore straniante raggiunge indicibili livelli di cattiveria e orrore; ma è un assurdo da cui fuggire o da cui nascondersi. Sailor e Lula sono esseri umani ma soprattutto sono sognatori americani innamorati e accomunati da una rabbia liberatoria non mossa da un’urgenza fisica nei confronti dell’altro. Secondo una visione classica potrebbero essere considerati antieroi, ma di certo non sono degli antagonisti, e ogni loro azione, anche la più immorale, può essere legata a uno scopo puro e cristallino, innocente, quasi infantile, come il loro amore fatto di sesso sfrenato e sigarette che si bruciano al rallentatore. In un tour de force sensoriale ed elementale in cui il fuoco, come sempre in Lynch, è principale motore visuale e narrativo di ogni cosa, Cuore Selvaggio esplode e implode in continuazione, giocando con le aspettative dello spettatore in una galleria di volti e di dialoghi dal retrogusto agrodolce o circense, o addirittura felliniano. Se Marietta è l’indiscutibile e insopportabile punto di partenza del male insieme al suo amico gangster Marcello Santos da un punto di vista strettamente narrativo, l’antagonista che rimane visivamente più impresso è sine dubio aliquo uno degli assassini assoldati da Santos, per la precisione l’ultimo incontrato dalla coppia fuggiasca: Bobby Peru, interpretato da Willem Dafoe, che ebbe modo di condividere lo schermo cinematografico con Nicolas Cage solo un’altra volta nel 2016 nel bellissimo Cane Mangia Cane di Paul Schrader, un regista che ironicamente forse condivide molto con Lynch nel comune tentativo di destrutturazione dei ‘topoi’ del cinema americano in un’etica post new-Hollywood.

Bobby Peru, con i suoi denti deformi e il suo passamontagna che sembra un profilattico, è un cattivo angosciante, i cui risvolti patetici sono continuamente messi in mostra in un perpetuo processo di castrazione del male e nel contempo continuamente allontanati e annullati dal suo molesto rapporto osceno con Lula e Sailor: finisce per stuprare lei con il solo potere delle parole, il potere insomma del racconto e dell’immaterializzabile che il regista spesso evoca, in una sequenza angosciante che si conclude con lei che sbatte le scarpe rosse 3 volte proprio come la Dorothy de Il mago di Oz quando vuole tornare a casa (e ricordiamo che il regista ha detto recentemente a Lucca che la sua attrazione nei confronti del film di Fleming e Vidor sta proprio in quest’ossessione per il ritorno, in un certo senso riecheggiata dallo sviluppo del personaggio di Dougie/Cooper in Twin Peaks: the Return a partire dalla puntata 3); e poi diventa invece per lui una sorta di ennesimo padre osceno lynchano, evoluzione del Frank Booth di Velluto Blu in chiave se possibile più tossica, più malata, in una psiche ancor più scardinata rispetto a quella di chiunque altro, rispetto al disordine magmatico del mondo. Se vediamo dunque il film come un processo di continua accettazione dell’assurdo, non si possono che notare certi particolari (o trivia) che possono parzialmente razionalizzare anche il più folle dei dettagli. L’indimenticabile frase di Sailor ripetuta fino allo sfinimento «Did I ever tell ya that this here jacket represents a symbol of my individuality, and my belief in personal freedom?» (ovvero ” ti ho mai detto che questa giacca [di pelle di pitone, ndr] rappresenta un simbolo della mia individualità e del mio credo nella libertà personale?”) è stata inserita nella sceneggiatura solo dopo che Nicolas Cage ha chiesto al regista se poteva indossare suddetta giacca durante le riprese – ed essa è poi tornata come indumento fisso addosso all’antagonista principale di Twin Peaks: the Return sin dal suo inizio, con il doppelgänger di Dale Cooper.

E poi il cugino di Lula, Dell, è interpretato da Crispin Glover, noto principalmente per essere il padre di Michael J. Fox nella saga di Ritorno al Futuro di Zemeckis, ma forse più che altro famigerato come regista e sceneggiatore di due surreali ed eccessivi film sperimentali underground, What is It? (2005) e It is fine. Everything is fine! (2007), con al loro centro assurde avventure erotiche, razziste e oniriche di ispirazione parzialmente lynchana con come protagonisti individui affetti da sindrome di Down o paralisi cerebrale. E poi si possono ricordare anche singoli segmenti del film gremiti di pulsioni animalesche e pertinaci scelte estetiche dalla forte duplicità, tra le quali è impossibile non prendere in considerzione i due incidenti d’auto, uno drammatico e spaesante e l’altro grottescamente violento fino a essere quasi umoristico, come tentando di dividere la sensibilità dello spettatore in due, in un continuo sforzo atto a comprendere i limiti di genere nel cinema come l’aspetto straziante del registro comico o dall’altra parte l’aspetto faceto del registro esistenzialista. E tutto va verso un inevitabile lieto fine che va contro il finale del romanzo portando la storia d’amore tra Sailor e Lula verso un commovente climax che sconfigge le previsioni possibili di un finale shakespeariano con un uso utopistico per niente spensierato della retorica cinematografica. Non è un finale positivo ironico e in tale dimensione dunque non ha il retrogusto tragico che poteva essere percepito nel finale di Velluto Blu con la sua metafora del bene che sconfigge il male attraverso la violenza perpetrata dal male, è un finale positivo vero, che riscatta i due protagonisti inserendoli in maniera definitiva in un empireo iconico di figure definitive per il cinema americano e in generale per il genere road movie. Il loro amore supera quello messo in scena da Malick nella rocambolesca avventura di La rabbia giovane (1973) e forse ne è un’evoluzione, o comunque un gemello lisergico, capace di comprendere maggiormente gli aspetti tragici del mondo proprio perché in esso non vi è una presunzione di tipo morale né una necessità di chiusura in un’unità generazionale. Una sceneggiatura scritta in una settimana e priva di qualsiasi traccia di allegria, attraverso varie riscritture, è diventata un film-incendio atto a costringere alla discussione nella bussola morale e sensoriale di ogni spettatore, capace di cambiare per sempre le carriere degli attori – la Dern non voleva mai fare scene di nudo, Cage cominciò con Cuore Selvaggio ad abbandonare il metodo Stanislavskij e la Ladd, che fu nominata all’Oscar inspiegabilmente, sfruttò la sceneggiatura delirante del film per dare sfogo all’improvvisazione. È forse il film più violento di Lynch, quello in cui il sangue sgorga in maggiore quantità disturbando lo spettatore pre-tarantiniano per l’apparente resa gratuita dell’atto dell’omicidio: ma è lo stesso tipo di brutalità annichilente e kafkiana che i protagonisti del film imparano a non sopportare, e c’è dunque dietro un discorso di denuncia e di ricerca all’interno dell’Io. È un film difficile, metatestualmente stratificato anche più delle gallerie simboliste e spirituali di Alejandro Jodorowsky come La Montagna Sacra (1973), tanto da essere nel contempo uno spietato cult e una (cupa) commedia musicale.

Due anni dopo Cuore Selvaggio, uscì nelle sale Le Iene di Quentin Tarantino, debutto promettente di un regista che si ritrovò a rivoluzionare il senso delle parole “violenza stilizzata” nel cinema mainstream statunitense. L’assurdità di contenuto e di forma di Cuore Selvaggio e di Velluto Blu negli occhi di Tarantino hanno avuto una qualche influenza per ammissione del regista stesso, a partire dalla scena di tortura dell’orecchio tagliato proprio nel suo film d’esordio, e forse il suo sguardo andava in direzione proprio di Cuore Selvaggio quando l’autore dietro Pulp Fiction, che ironicamente vinse anch’esso la Palma d’Oro nel 1994, scrisse la sceneggiatura di Assassini Nati, film che fu poi diretto da Oliver Stone e distribuito sempre nel 1994 con un sottotesto politicizzato che fu criticato soprattutto da Tarantino stesso, che disconobbe l’opera. Probabilmente Lynch non ce l’ha con il regista italoamericano, che lo ha citato con passione cinefila e senza veri e propri intenti di plagio, ma probabilmente ha sentito un certo astio nei confronti di come Stone ha trattato la sua filmografia, anche o soprattutto a causa di un altro progetto che Stone non ha seguito da regista ma da produttore esecutivo: la miniserie Wild Palms (1993), che non solo nella sigla ma anche nel contenuto ha replicato in maniera definitivamente superficiale certe idee estetiche e narrative di Twin Peaks. Ci piace pensare, e probabilmente non abbiamo tutti i torti, che sia Strade Perdute sia Twin Peaks: the Return possono essere in parte una parziale vendetta del regista di Missoula nei confronti di questi due prodotti che hanno così tanto frainteso le sue intenzioni, Assassini Nati a causa del proprio approccio moralista (più o meno…) nei confronti del mondo allucinatorio di Cuore Selvaggio e Wild Palms per colpa della succitata superficialità. Infatti sia Strade Perdute sia la terza stagione di Twin Peaks presentano nel cast attori che hanno collaborato a questi due progetti, e svariate scene di Strade Perdute riecheggiano esplicitamente sequenze in essi contenute, dal meccanico sedotto in officina fino all’inseguimento stradale. Tom Sizemore, Balthazar Getty, Jim Belushi e Robert Loggia sono solo alcuni tra i nomi che Lynch ha riutilizzato in questo suo tentativo di riscrittura e distruzione dell’iconoclastia che Stone ha adoperato nei suoi confronti. E da questo punto di vista è necessario ricordare, come scritto poc’anzi, che Strade Perdute è stato co-sceneggiato da Barry Gifford, forse a causa del suo approccio pop-cult alla narrazione, capace di mischiare l’apparente incoerenza poetica della Beat Generation con l’idea di surrealismo lynchana in un’armonia perfetta. Tra la Perdita Durango interpretata da Isabella Rossellini, rimessa in scena da Álex de la Iglesia in un film titolare del 1997 tratto da un altro romanzo di Gifford, e i metallici e sensuali montaggi che ripercorrono, ripetendosi, l’intero film, Cuore Selvaggio dunque ha un proprio posto nella produzione dell’autore che fin troppo spesso viene sottovalutato a causa forse dell’approccio più confusionario alla materia; ma l’idea di base è proprio il mettere in scena questo disordine, questa violenza folle che scorre nel mondo e che se definita razionalmente non è troppo distante da come viene messa in scena in maniera parzialmente o apparentemente irrazionale per tutto il corso del film. Forse bisogna avere un cuore selvaggio (sic) per apprezzare Cuore Selvaggio, o forse bisogna semplicemente immedesimarsi in uno sguardo meno frammentato di quello di Mulholland Drive (2001) o di INLAND EMPIRE (2006) e meno pacato di quello dell’altro roadmovie di Lynch, Una storia vera (1999). Ma non è un film disumanizzato e mostruoso, è anzi profondamente intimo, e questa sua strana umanità non va dimenticata in mezzo agli sprazzi sparuti di irreale delirio: bisogna entrare nel gioco, nella comprensione dei ritmi e delle rime di questa poesia-filastrocca tanto cupa e sadica per penetrare nella sua complessità linguistica e comprenderne massimamente l’importanza storica. Cuore Selvaggio non ha niente in meno rispetto agli altri capolavori di Lynch, la sua violenza stilizzata continua a evolversi nella produzione odierna del regista (v. l’omicidio compiuto da Ike “The Spike” nell’episodio 6 di Twin Peaks: the Return) e soprattutto la sua potenza espressiva non smetterà mai di bruciare.

Nicola Settis