CUATREROS (2016), di Albertina Carri
E pensare a tutte le volte che il cinema tenta di riscrivere le storie, o forse a scriverle per la prima volta intersecando ciò che la storia necessiterebbe di dire. Il senso della riuscita, o meno, di un progetto del genere dovrebbe essere sempre relativa rispetto all’essenza stessa del ciò che viene messo in scena, o forse del suo tentativo che non può non dipendere dalla necessità relativa ed espansa di un materialismo che spesso nega la sua narrazione. Albertina Carri vorrebbe fare un film su Isidro Velázquez, un fuorilegge romantico, una figura quasi mitica dal nord dell’Argentina, ucciso dalla polizia nel 1967. Pochi sono gli indizi, se non un libro del padre sociologo della stessa autrice, Roberto, che tenta di definire una traccia (“Pre-Revolutionary Forms of Violence”) possibile ad una realtà ancora sconosciuta. Ora che lui e quella storia si sono definitivamente persi, come si potrebbe costruire una narrazione? Probabilmente in nessun modo, l’unica speranza è affidarsi al fluire stesso degli archivi e dei materiali in attesa di una o più tracce da poter seguire e in cui disperdersi, sperando che nella frammentazione di un percorso ne possano nascere altri, e che tra tutte quelle traiettorie almeno una non torni unicamente a intersecare se stessa.
Leggende lontane, cronache familiari e dibattiti politici paiono unicamente territori in cui vagare e che producono ulteriori immagini, moltiplicando i canali e sovrapponendoli. Ogni materiale è allo stesso modo materia, e tutto ciò che può contenere un archivio (bobine amatoriali, home movie, pubblicità, interviste, ma anche filmati di regime, opere astratte, porno in 16mm e trailer veri e propri in 35) può, anzi deve, vivere un’esistenza ulteriore a quella della provvisorietà a cui sono destinati. Cuatreros (titolo internazionale Rustlers) è pura poetica del frammento e della sua frantumazione, angosciante quanto affascinante, commentata dalla vorticosa e ansiata prolissità lucida, straziante e viscerale della sua autrice nel tentativo estremo di recuperare una pagina di storia argentina (il retaggio audiovisivo della dittatura) e probabilmente uno scarto di identità personale (dal padre scomparso alla complessa maternità). Ci sono film vecchi e nuovi, perduti e impossibili, e questo idealmente li raccoglie tutti, nella follia di salvare un attimo, ogni piccolo istante che potrebbe essere vitale e sopravvive nella sua fragilità, nel contrappasso di una filosofia della storia che aliena il frammento e lo lascia alla deriva di coloro che lo potrebbero ricordare. Al di là dell’istallazione o del saggio visivo, non è questo ciò che conta, e forse nemmeno la tribolata esistenza del povero Velázquez. Allo stesso modo sarebbe impossibile provare a cercare una direzione a questo lavoro, proprio perché volontariamente non la cerca, gorgogliante com’è nella sua ribollente confusione di germogli narrativi dispersi nel campo di uno schermo che sta a noi cogliere attraversandolo.
Espandere lo schermo a più letture diventa il vincolo e(ste)tico di un’ossessione e di una battaglia di linguaggi. L’usare le più disperate fonti di footage porta a chiedersi la reale necessità di generare nuove immagini nella prospettiva critica della ridiscussione di tutto ciò che ancora non abbiamo visto. Come frammenti ancora in incubatrice, la Carri ha cercato in questa selva di fotogrammi e materiali un’espressione che potesse essere funzionale alla propria narrazione, o meglio qualcosa che potesse evocare un discorso e ne definisse la propria sintassi. Prima dell’interrogarsi sulla storia, questo film si (sof)ferma sull’idea di realizzazione, dubitando della sua stessa essenza non tanto come opera, bensì come strumento. L’idea dell’intervento politico, a cuore aperto, sul linguaggio, oltrepassa il senso del road movie sulla memoria, ma definisce la topografia di un territorio sconosciuto, creando immagini altre rispetto quelle visualizzate sullo schermo. Anche il rapporto che si crea tra la voce narrante e le immagini risulta sdoppiata. Da una parte c’è l’esperienza personale della Carri, un flusso interiore di parole che si meraviglia e si ritrae nelle increspature dei ricordi di una possibile sopravvivenza, dall’altra l’idea del (s)oggetto sociale (e politico) che supera l’idea della finzione autobiografica per creare un immaginario collettivo, testimonianza di una/della storia. Questo perché il cinema stesso, in fondo, è una rottura del tempo in uno spazio senza limiti, in cui la luce e l’ombra sono le persone che attraversano questo luogo sonoro diventando soggetti. Cuatreros è un film politico, che allo stesso modo si interroga in modo molto forte sul rapporto “ecologico” tra produzione e realizzazione, una “geografia” possibile nel distruggere la retorica borghese che si è impossessata del linguaggio stesso di un certa possibilità di documentare il reale. Ciò che rimane è la possibilità di pensare un film al di là del film stesso, il senso ipnotico della scoperta che crea narrazione indipendente dall’immagine e dalla parola, lo strutturarsi di questi canali come finestre intrallacciate di storia e di vita. Non si può fare la storia di quello che stiamo vivendo, ma è straordinariamente profondo e giusto provarci.
Erik Negro