L’11 agosto 1944 Firenze dava la scossa per risvegliarsi città libera, intraprendendo una battaglia popolare contro il nazifascismo che si sarebbe protratta fino a settembre. Ogni anno, in occasione dell’11 agosto percorrere in auto quell’enorme viale spoglio e periferico, tra la fine dell’autostrada Firenze-Mare, l’aeroporto e l’innesto sulla via Sestese, connette pensieri ed emozioni. Più delle dovute e urgenti (ora più che mai) celebrazioni ufficiali è sufficiente farsi un giro su quel viale XI agosto, dedicato alla giornata cruciale, e vedere il monte Morello che si staglia verdescuro e poderoso davanti ai propri occhi. La Storia sta ancora lì, vive nel passato e nel presente, basta ritrovarla nei luoghi che l’ha ospitata, eterni testimoni delle fondamenta democratiche di questo bizzarro paese che sostiene o tollera la dittatura, poi dà l’anima per liberarsene, e settant’anni dopo gli strizza ancora l’occhio. È banale dirlo, ma la memoria è importante, ed è importante ricercarla nei luoghi quotidiani, assorbiti da una costante fruizione che rischia di spogliarli del loro valore civile. Il monte Morello è un luogo-simbolo della Resistenza fiorentina; lì si raccolsero i primi gruppi antifascisti, e lì si svolsero anche numerosi scontri a fuoco con i nazifascisti. È un luogo splendido, pressoché disabitato, percorso da un’unica lunghissima strada che collega Sesto Fiorentino alla via Bolognese. Adesso è diventato un luogo per lo più di pranzi e merende, e in questo non c’è niente di sacrilego. Verso la primavera niente è più bello che andare lì a mangiarsi un panino con la finocchiona e guardarsi intorno, nel silenzio del luogo. E provare a sentire l’emozione della stratificazione storico-temporale, ritrovare nel presente luoghi che in altri tempi hanno osservato la battaglia per la nostra libertà, divenuta oggi così scontata e automatica da indurre alcuni a guardarla con sufficienza e distacco, se non vero disprezzo.
C’è un altro luogo fiorentino che nei decenni ha assunto caratteri simbolici tramite una mitizzazione letteraria e poi cinematografica: la via del Corno di “Cronache di poveri amanti”, romanzo di Vasco Pratolini apparso nel 1946 che tornava a raccontare i primi anni mussoliniani, ambientando tra il 1925 e il 1926 una vicenda corale in un quartiere popolare tra Palazzo Vecchio e Santa Croce, dove già fascisti e antifascisti si contrappongono in conflitti quotidiani. Pratolini rievocò i suoi anni giovanili, trascorsi per un periodo proprio in quella strada, e fornì l’occasione a Carlo Lizzani per una trasposizione al cinema al quale lo stesso Pratolini collaborò attivamente. Il film ha avuto una storia travagliata; abbandonato da Luchino Visconti ancora in fase di progetto per contrasti tra costi eccessivi e un’idea di trasposizione grandiosa, fu ripreso da Lizzani, giunto al suo terzo lungometraggio non documentario, che raccolse gratuitamente i diritti del romanzo da Sergio Amidei. E’ il 1953, la lezione neorealista è sempre forte ma ha compiuto anche un suo percorso, spostandosi verso una composizione del racconto a suo modo più composta e ordinata. Resta lo sfondo sociale, il forte intento civile, l’urgenza di trasformare il cinema in vero attore politico nelle dinamiche della società italiana. Come sottolinea lo stesso Lizzani, il neorealismo scopre che si può applicare il suo approccio stilistico-narrativo non soltanto al presente, ma anche alla Storia. Così, Cronache di poveri amanti sposta la propria attenzione dalle esigenze di denuncia coeve alla realizzazione del film verso la rievocazione di un passato non lontanissimo, ma che richiede a gran voce memoria e riflessione. Venuto da un’opera prima, Achtung! Banditi! (1951), dedicata alla Resistenza genovese, Lizzani prosegue con Cronache di poveri amanti l’esperienza della Cooperativa Spettatori Produttori Cinematografici, realtà di produzione alternativa “dal basso” che dopo Achtung! Banditi! riesce a dare alla luce soltanto Cronache di poveri amanti. Osteggiata da più parti, la cooperativa chiude i battenti nel 1961 ma di fatto le sue attività si arrestano a metà anni Cinquanta con la realizzazione di questi soli due film. Le cause del fallimento furono per lo più dovute all’ostracismo degli organi istituzionali, che in quegli anni tentavano ogni via per scoraggiare opere di cinema italiano che rievocassero vicende fasciste o più semplicemente il disagio sociale dell’Italia postbellica. Basti pensare che a Cronache di poveri amanti fu vietata l’esportazione all’estero (passò con grande successo solo nei paesi del blocco comunista, Cina compresa), malgrado il Gran Premio della Giuria raccolto al Festival di Cannes – e al riguardo vi è anche un triste e gustoso aneddoto riportato da Jean Cocteau, presidente della giuria cannense di quell’edizione, che dà conto di forti pressioni da parte della delegazione italiana perché il film di Lizzani non fosse insignito del primo premio. Insomma, nell’Italia democratica degli anni Cinquanta restano comunque ampi lacci e lacciuoli alla libertà artistica e d’espressione, con pesanti ingerenze dovute a un’idea proteiforme di censura. Pratolini stesso accettò qualche smussamento del testo riguardo ad alcuni elementi di non immediata matrice politica, come il velarsi fino alla dissoluzione dei riflessi omoerotici nella figura della “Signora” nei suoi rapporti con le domestiche al suo servizio.
Le scelte stilistiche di Lizzani vedono di nuovo un’idea di neorealismo che si modifica nel tempo, sospinto anche da mutate condizioni sociali e produttive. Seguendo con rispetto il dettato pratoliniano, Cronache di poveri amanti è innanzitutto un film sulla giovinezza, un plurale romanzo di formazione, che non rinuncia al rapido bozzetto sociale nel tentativo di tramutare una strada popolare di Firenze in sineddoche di un intero paese. Come accadrà successivamente anche in “Le ragazze di San Frediano” (1952) a sua volta portato al cinema per l’esordio di Valerio Zurlini (1955), Pratolini si sofferma sul racconto di delicate vicende giovanili, tra amori e ardimenti, collocati in un ambiente proletario prebellico (“Cronache”) o postbellico (“Le ragazze”). Lizzani rispetta tale impostazione restando ancorato a una costruzione corale perfettamente equilibrata, in cui i vari protagonisti si danno il cambio senza forzature o rigidità di scansione narrativa, calandosi al contrario in un’ammirevole fluidità di racconto che tiene al centro e ai lati tutti i personaggi nello stesso istante. Nessuno è cornice di qualcun altro, nemmeno il ciabattino Staderini che funge da commentatore classico, quasi una riedizione del coro greco. Tuttavia, quella di Lizzani-Pratolini è una giovinezza particolare. È la giovinezza di chi, di lì a una quindicina d’anni, si ritroverà in piena guerra ormai quarantenne o cinquantenne. Per cui, alla malinconia di un’età universalmente irripetibile anche per i suoi trasalimenti emotivi si sovrappone l’ombra lunga di un cupo futuro che è già alle porte, incarnato nei fascisti ormai al potere che dettano tempi e spazi di vita. A differenza di Achtung! Banditi!, che sposava un linguaggio di arrembante cinema resistenziale, tutto votato alla messinscena di un’azione serrata e senza respiro, qui Lizzani dà forma sottile ai nascenti conflitti in un orizzonte di piatta quotidianità. Sulle prime tra fascisti e antifascisti si configurano anche lievi scontri verbali giocati sulla tendenza toscana alla battuta pungente. Presto allo scontro verbale si sostituisce la violenza conclamata, e a poco a poco Cronache di poveri amanti scurisce i suoi toni, abbandonando poi i tratti del bozzetto sociale per una pagina centrale in cui Lizzani recupera le stringenti modalità narrative ed espressive di Achtung! Banditi!.
L’appassionante capitolo dedicato alla “notte dell’Apocalisse”, quando a seguito di un episodio di violenza i fascisti mettono in atto una spietata ritorsione in tutta la città, è cadenzato sui ritmi di un noir politico, dove la fanno da padroni un uso sapiente del montaggio alternato e la predilezione per punti di vista angolari e spezzati, taglienti nella loro sostanza visiva – tratto stilistico, del resto, che ricorre in tutto il film, anche nella narrazione degli infiniti punti di vista dalle finestre di via del Corno, un vero e proprio concerto di plongés, contreplongés e figure umane esaltate nei volti ma spesso tagliate parzialmente fuori dall’inquadratura. Nella chase notturna tra fascisti e antifascisti, che si conclude col feroce assassinio di “Maciste” sulla scalinata della basilica di San Lorenzo, Lizzani palesa uno sguardo moderno e avvincente, giocato sulla suspense e l’emozionante mostrazione dell’azione. In una generale scansione narrativa che intreccia sapientemente pubblico e privato, Lizzani conduce il film dalla lieve solarità degli esordi in un cono d’ombra sempre più cupo e opprimente, fino alle conclamate persecuzioni contro gli antifascisti, all’insegna degli arresti facili (Pratolini le identifica nel cruciale inverno del 1926 con la stretta repressiva tramite specifici provvedimenti legislativi) che chiudono il racconto nella sua ultima parte, di nuovo cadenzato sui ritmi della suspense – vedasi l’arresto di Mario, dove Lizzani mostra anche un sapiente uso delle ambientazioni a contrasto, mettendo in relazione lo sfondo della maestosa Loggia dei Lanzi con la drammaticità dell’arresto. E con scelta decisamente originale Cronache di poveri amanti si chiude nell’attimo della definitiva e totale presa di coscienza di un dramma politico in atto, che risveglia Firenze al crudo spettacolo della violenza richiamando le coscienze al loro compito. Alla Firenze e all’Italia del finale di Cronache di poveri amanti si dischiudono altri 20 anni di violenza e repressione, col tragico climax della Seconda Guerra Mondiale. A poco a poco tutti i protagonisti sono chiamati dalle esigenze della Storia ad abbandonare le loro titubanze, tra idee diverse di opposizione (la spinta all’azione di Ugo-Mastroianni vs. l’attendismo politico di “Maciste”) e fughe nel privato (Mario). Pure le figure femminili, qui disegnate ancora nel loro prevedibile ruolo ancillare, spalancano gli occhi di fronte al pieno manifestarsi della violenza politica – i percorsi esistenziali di Milena e Gesuina.
Se Lizzani utilizza ancora il termine “neorealismo”, si tratta altresì di un neorealismo in evoluzione. Rispondendo a qualche preoccupazione produttiva, i protagonisti sono veri attori, alcuni in rampa di lancio come Marcello Mastroianni, e più in generale figure importanti del “neorealismo rosa” in via di farsi (Gabriele Tinti, Antonella Lualdi, Anna Maria Ferrero, Cosetta Greco…). Come retaggio del neorealismo più ortodosso resta l’utilizzo di Adolfo Consolini nel ruolo di “Maciste”, campione olimpionico di lancio del disco assoldato da Lizzani per questa sua unica esperienza cinematografica, secondo il tipico spirito neorealista nel ricorso ad attori non professionisti. Tra i protagonisti ritroviamo anche Giuliano Montaldo, all’epoca ancora dedito alla carriera attoriale prima di intraprendere quella registica – è tra i protagonisti anche di Achtung! Banditi!. Per il resto l’orizzonte socio-culturale del neorealismo qui si contamina con una costruzione visibilmente letteraria, riscontrabile nella sostanza verbale dei dialoghi e soprattutto nell’ordinata composizione narrativa delle varie vicende. Quasi a simboleggiare tale collocazione-spartiacque tra neorealismo e nuove istanze si erge quella ricostruzione fittizia dell’intera via del Corno, che secondo una scelta “intermedia” è riallestita tramite scenari finzionali ma all’aperto, in modo da poter sfruttare realmente gli effetti della luce naturale – così, come ricorda Lizzani, per girare scene notturne si dovette comunque aspettare il calare della vera notte. Da un lato quindi si abbandona la pratica neorealista del girare in luoghi reali; dall’altro la si recupera parzialmente collocando lo scenario fittizio fuori dal teatro di posa.
Firenze e tutta Italia si apprestano dunque a celebrare il settantaquattresimo 11 agosto, e per chiudere circolarmente il ricordo di quei giorni fondamentali è buona l’occasione di rivedere questo bel film, nutrito di umori sanamente popolari, che di quell’immane tragedia nazionale rievoca gli esordi, tratteggiando sapientemente l’insinuarsi cauto e subdolo della violenza nella quotidianità. Verso la repressione politica, in circostanze a essa favorevoli, non vi è che un passo.
Massimiliano Schiavoni