«È ora di smetterla di fare film che parlano di politica. È ora di fare film in modo politico»
Jean-Luc Godard
Basterebbe forse partire dalla geniale intuizione di inquadrare il protagonista facendo roteare la macchina da presa assieme al volante dell’auto, per riassumere il Pardo d’Oro 2023 Critical zone. Un costante girare senza apparente meta, e senza più nemmeno la possibilità di trovare punti di riferimento, per i bassifondi di una Teheran notturna, oscura e proibita, del tutto opposta all’immagine pubblica imposta dal regime. Una Teheran fatta di tossicodipendenti, di emarginati che si fanno largo per riaffiorare fra le strette maglie della propaganda e di un’emancipazione femminile che si trucca e sfacciatamente appena può si toglie il velo, una Teheran fatta di droghe a più e meno buon mercato (torna alla mente il Saeed Roustaee di Just 6.5) con cui alienarsi dall’amarezza del quotidiano, una Teheran fatta di prostitute, magari transgender, costrette a nascondersi in mezzo ai piloni delle sopraelevate perfettamente consapevoli di rischiare ogni sera la propria stessa vita per il solo fatto di continuare a esistere. Una Teheran come un tunnel apparentemente senza uscita (o forse a ben cercarla c’è: è solo complesso, tortuoso e illegale trovarla, e non è affatto escluso che la sua ricerca porti all’interno di altri tunnel e di moralità alternative), in cui un ambiguo spacciatore potrà progressivamente rivelarsi un sostanziale profeta degli stupefacenti, un angelo che allevia le sofferenze, un benefattore alla disperata ricerca di umanità e di anime in pena da aiutare chimicamente a trovare un po’ di pace, mentre le figure politiche-religiose della tradizione khomeinista e le loro rigide regole rimarranno direttamente fuori dal campo, imprescindibili noccioli del contesto – «non possiamo fare altro che conviverci», diranno apertamente nel film – eppure volutamente invisibili, come inquietanti ombre sullo sfondo contro le quali apertamente opporsi e resistere prima, durante e forse (come in questo caso, con il regista Ali Ahmadzadeh attualmente bloccato in Iran senza passaporto e costantemente bombardato da pressioni di ogni tipo e da accuse del tutto infondate come quelle di aver girato un porno o di aver rapito le sue attrici) soprattutto dopo le riprese, quando la finzione è ormai finita e gli aspetti fondanti di quella specifica realtà volutamente lasciati ai margini non potranno che rientrare a gamba tesa per punire nella quotidianità e nella vita chi ha avuto l’ardire di ingannarli e di occultarli, di offenderli sfidando e ribaltando le loro regole civili e morali. Una storia diversa eppure uguale a tante altre storie giunte negli ultimi anni ad accompagnare altrettanti film iraniani, l’ennesima tappa repressiva del Paese degli artisti incarcerati e ridotti al silenzio dagli ayatollah. Quello stesso Paese da cui Jafar Panahi, prima ancora dei divieti di girare e dei ripetuti arresti, era già costretto da anni a far uscire clandestinamente i suoi lavori in chiavette usb nascoste come lime nelle torte. Quello stesso Paese in cui, poco dopo la fine delle riprese di Critical zone e passando per la barbara uccisione di Mahsa Amini, sarebbero iniziate a scoppiare le prime proteste ancora in corso contro il regime ultraislamico e la nuova ondata di violenza repressiva da parte del governo.
Ma non divaghiamo. Anche perché non è (ancora) un film sulle rivolte, quello messo in scena in totale renitenza, aggirando i divieti a costo di rischiare sulla propria pelle, da Ali Ahmadzadeh, pronto a mentire apertamente alle autorità fingendo di lavorare a dieci distinti cortometraggi per filmare in strada (e a volte perfino in aeroporto), con troupe ridottissima e senza alcun tipo di permesso, i paradigmi e le metafore di un Paese invisibile, vietato e il più accuratamente possibile insabbiato da un Potere che, incurante del biasimo internazionale, non si fa alcun problema a mostrare e reiterare apertamente le storture oppressive e le ingiustizie del suo pugno di ferro, ma non può e non vuole permettersi di ammettere la sua fallibilità, l’esistenza di chi nella vita e su uno schermo ancora si prende la propria libertà, o che per lo meno cerca e trova un (seppur tossico) rifugio nei cui effetti psicotropi non pensare, almeno per un po’, alla società in cui vive, rendendo un po’ più facile accettarla e al contempo attuando, nel suo infrangere le leggi coraniche e civili, un’ultima e disperata forma di resistenza con cui ancora non rassegnarsi. Una società di cui Critical zone, a partire dal bulldog del protagonista (il quale, oltre a essere come tutti i cani un animale considerato impuro dalla cultura locale, farà non certo per caso selvaggiamente sesso con le gambe del padrone addormentato per poi leccare disgustosamente via il prodotto della propria animalesca lussuria), passando per gli abnormi quantitativi e tutte le possibili tecniche di assunzione di ogni sostanza stupefacente possibile e immaginabile, vuole provocatoriamente mostrare e mettere in scena l’esatto e inosabile negativo, genuinamente vero nei suoi bassifondi più ribelli e underground, e intriso della realtà umana dei non-attori che ci mettono la faccia, pienamente consapevoli di aver girato a rischio della propria stessa incolumità, ma comprensibilmente non il vero nome, per evitare le stesse ripercussioni con cui prevedibilmente, e come già detto, le autorità persiane stanno minacciando e calpestando i più basilari diritti dell’autore sin dal momento dell’annuncio nel concorso di Locarno76 del lavoro diretto e poi presentato senza autorizzazioni da Ahmadzadeh. È in questo senso che è semmai un puro atto di resistenza, il (gran bel) film che – forse un po’ generosamente ma nemmeno troppo, con il solo Do not expect too much from the end of the world assoluto capolavoro di Radu Jude palesemente superiore, anche se conoscendo la natura delle riflessioni che muovono il suo cinema non è difficile immaginare lo stesso autore rumeno, secondo classificato con la vittoria del Premio Speciale della Giuria, condividere in prima persona il forte e chiaro messaggio politico inviato dai giurati con la scelta nell’attribuzione del premio principale – ha trionfato in Canton Ticino1. È un pugno in faccia, è un irriverente dito medio alzato, è un aperto e indocile vaffanculo gridato fuori da un finestrino, ripetutamente e a pieni polmoni, alla città e alla società tutta. Con un film tenacemente ribelle e intelligentemente irritante, apertamente fuorilegge nel suo rifiuto di una legislazione sbagliata; un film al contempo affascinante, straziato e militante, con cui (ri)prendersi ostinatamente quella libertà, formale e contenutistica, che la prassi e le norme giuridiche fanno di tutto per non garantire e anzi accuratamente reprimere, e con cui riaccendere i fari su un’umanità nascosta, proibita, “sbagliata”, e forse proprio per questo così bruciante.
Vive della sua struttura necessariamente episodica, Critical zone. Un film fatto di incontri, tappe, persone, microstorie, differenti realtà quotidiane che, ognuna a modo suo, tentano di sopravvivere. Forse è proprio la loro (non) comunità nascosta legata dagli appuntamenti con il medesimo pusher, la “zona critica”. O forse la “zona critica” è esattamente all’opposto quella che sta al di fuori della loro sacca di resistenza e di ribellione al sistema, l’ambiente con cui devono ogni giorno fare i conti, la città che intorno a loro, gelida e anaffettiva, impartisce ordini da eseguire proprio come quella voce del navigatore che guida Amir lungo il dedalo di strade buie e polverose. Dieci incontri di una nottata come tutte le altre, in cui progressivamente dare sempre più senso al suo aspetto quasi cristologico, o per lo meno da profeta nei lunghi riccioli neri e nella barba folta, passando da pusher a taumaturgo, da criminale a benefattore, da tossico che fuma, pippa e dipende fortissimamente da qualsiasi sostanza leggera e pesante a sostanziale (anti)eroe ultimo custode e profeta di un’umanità straziata e malinconicissima. C’è il ragazzo consolato e poi lasciato a un chiosco, ci sono le ex da rimpiangere e le amiche e conoscenti a cui dare un passaggio e offrire qualcosa, ci sono gli anziani dell’ospizio ai quali amorevolmente imboccare le torte al THC per regalare loro una rilassata e inconsapevole notte di sonno, ci sono la prostitute transessuali da cui non farsi pagare le dosi di cui hanno bisogno, e c’è l’anziana donna che lo presenterà al figlio “rimasto” – da un tunnel all’altro – addirittura come dottore, mentre il protagonista, il cilindro con la polvere pinzato alla t-shirt e la canna d’ordinanza (rigorosamente di “fumo”, «proprio non capisco chi preferisce l’erba») sempre in bocca, con la sua perfetta conoscenza delle sostanze e dei loro effetti le mescola, gliele somministra e lo coccola fino a guarirlo dal suo stato, riportandolo con una Pietà per molti versi michelangiolesca alla veglia e all’amore per la madre. Tasselli di una tenerezza quasi insostenibile in mezzo all’apocalisse quotidiana di un «popolo che vaga di esilio in esilio», come scandito dalla radio, in un (anti)road movie in viaggio verso il nulla se non la sua quotidiana ripetizione, in un (anti)melò in cui cambiano costantemente le tante donne (tutte a loro modo libere, e tutte a loro modo ingabbiate nelle oppressioni della teocrazia) e i pochi uomini con cui interfacciarsi, in un film (anti)sperimentale che cerca e trova per ogni situazione e metafora messa in scena un proprio linguaggio visivo e cinematografico. Fra i mille colori riflessi sulle vetrine che fanno da controcanto ai colori slavati della piena luce, le figure umane (s)perdute fin da piccole sullo sfondo di monitor elettronici cangianti, le soggettive ribaltate di una danza-performance contorsionista per bambini, i neon rossi e blu che scaldano e raffreddano le immagini, le strabordanti accelerazioni contromano e i veri e propri stati allucinatori in cui fuggire strafatti di ketamina e mezzi ubriachi da immaginari inseguitori (sintomatico come nell’Iran messo in scena da Ahmadzadeh sia semplicissimo trovare interi carichi di hashish, marijuana, oppio e cocaina, mentre per il poco alcool di una birra serve necessariamente il contrabbando dall’Europa di un’amica hostess) prima che l’orgasmo psicotropo diventi assordante grido di liberazione. Poi sì, forse non proprio tutto torna in una narrazione nella quale si continua a percorrere la città di notte fumando spinelli al volante con vicino una borsa contenente chili di qualsiasi droga senza mai incontrare alcun tipo di forza dell’ordine, forse qualcosa risulta alla lunga esagerato nella continua e provocatoria sfida del film alla prassi e alle regole del Paese, e forse rimane qualche zona d’ombra nella piena comprensibilità di ogni dettaglio simbolico. Ma non può e non deve essere questo il punto. Fa anzi parte della rabbiosa forza di Critical zone, messinscena di ciò che disperatamente si aggrappa agli ultimi barlumi di umanità mentre subito fuori (e a ben vedere anche dentro) infuria il disastro, la costante emergenza democratica, la sistematica imposizione di limiti e di squilibri. Un film consapevolmente e necessariamente contraddittorio, tossico, ben oltre i limiti della morale non solo iraniana, per un ben preciso atto politico di vizi e virtù, di consapevoli (e non consapevoli) fughe nell’oblio, di piccoli e grandi atti con cui tentare di mettere un qualche argine alle limitazioni della libertà, alle censure, agli obblighi, alle pene severissime. Ma soprattutto di profondissima umanità, proprio dove meno ce la si potrebbe aspettare. Per un Pardo urgente, chirurgico, condivisibile, che perfino dalla “neutra” Svizzera sembra volersi unire a voce roca al «Fuck you!» urlato in faccia da Ali Ahmadzadeh, con le parole e con i fatti, a tutto il sistema repressivo dell’Iran contemporaneo. Perfettamente consapevole che sarebbe stato a sua volta represso, ma proprio per questo mosso dalla necessità ancora più impellente di cogliere l’attimo di disattenzione, per riuscire a completare e a presentare all’estero, prima che fosse troppo tardi, il suo personale atto di resistenza.
Marco Romagna