CRIMES OF THE FUTURE (2022), di David Cronenberg

«Surgery is the new sex». Una vertigine di piacere e di dolore, di desiderio e di incisioni della carne, di costanti mutazioni dell’interiorità umana come pura forma artistica e di masse tumorali da asportare come vera e propria performance. Un po’ come l’erotismo malato delle ferite fra le lamiere contorte di Crash, un po’ come il virus che ancora si fa demone sotto la pelle ed evoluzione accelerata dell’ibrido desossiribonucleico fra l’uomo e La mosca, un po’ come il «long live the new flesh» già di Videodrome. C’è tutto David Cronenberg nella sua nuova versione di Crimes of the future. Non un remake del suo omonimo film sperimentale del 1970, ma un ritorno alla regia e alle forme più torbide del suo body horror con cui ripercorrere e condensare come in una summa da lasciare in eredità alle nuove alle nuove (e forse progredite?) generazioni tutte le fasi della sua carriera, del suo immaginario e del suo pensiero. Dagli esordi privi di dialoghi fino alla progressiva verbosità filosofica dell’ultimo dittico Cosmopolis / Maps to the stars, reintercettando lungo il cammino tracce sparse delle aziende biotecnologiche e delle cospirazioni di eXistenZ, dei linguaggi de Il pasto nudo, dei buchi neri di Spider, dei tatuaggi di Eastern promises, delle sado-estasi perverse come ‘fisicità della conoscenza’ di A dangerous method, del ‘bello’ di M. Butterfly e, chiaramente, della chirurgia di Inseparabili, fino al definitivo sguardo verso il futuro che teorizza apertamente la metamorfosi della carne come unica possibile salvezza dell’uomo, come unica possibile evoluzione, come unico possibile futuro di una specie altrimenti (auto)condannata all’estinzione. Gli basta il relitto di una barca affondata poggiato su un fianco, per introdurre la sua nuova distopia in cui il vero relitto è il corpo di un essere umano ormai obsoleto e bisognoso di evolversi. Gli basta un mondo che non conosce più l’avvisaglia del dolore in cui ogni giorno il corpo e la psiche del Saul Tenser di Viggo Mortensen producono nuovi organi mai visti prima e dalla funzione sconosciuta, ultima e splendidamente warholiana forma di corrispondenza fra artista e oggetto d’arte da estrarre ed esibire sul palcoscenico fra gli sguardi bramosi del pubblico e quelli delle telecamere. Gli basta un bambino che mangia avidamente cestini di plastica, evidente evoluzione umana con cui salvare la Terra e nelle cui mutazioni trovare la nuova forma per sopravvivere, e invece visto perfino dalla madre come «cosa», «creatura», «mostro» da soffocare nella notte con un cuscino e da tenere nascosto, o forse prima “spettacolare” autopsia da eseguire sul palco per scoprire ancora una volta come non si possa prescindere dall’umanità per superare l’umano. Perché, nell’ennesima vertigine ballardiana messa in scena da David Cronenberg, in cui nemmeno quando tutto appare procedere ineluttabilmente verso il più lugubre vicolo cieco viene mai meno almeno un barlume di speranza, è assolutamente necessario superare l’umano. Un’evoluzione che, per Saul Tenser e la sua inseparabile compagna Caprice (una Léa Seydoux per la quale sono ormai finiti gli aggettivi d’elogio), è tanto slancio artistico e armonioso quanto aperta provocazione, e quindi ben preciso atto politico del (ri)costruire matericamente la propria «bellezza interiore» come ribellione, come rivolta, come il gesto fisico con cui definitivamente esperire di persona, all’interno delle proprie membra, una definitiva e (in)controllata presa di coscienza. Anche e soprattutto in mezzo alle cospirazioni di chi non ha interesse in uno sviluppo troppo perfezionato della macchina umana, ma anzi lo contrasta perché nel suo eccessivo adattarsi ed evolversi smetterebbe di guadagnare sulla fragilità della sua carcassa.

Tutto dell’uomo deve essere ridiscusso e oltrepassato, in Crimes of the Future: il corpo, gli organi, la società, il rapporto con la macchina, il concetto stesso di arte, ma anche il genere, il rapporto di coppia, perfino il modo di fare sesso dai baci ai bisturi, dal sudore all’incisione, dal letto al baccello su cui giacere nudi insieme – «I’m not very good with the old sex», dirà Saul alla seducente Timlin di Kristen Stewart quando lei, sempre più eccitata dalle sue mutazioni, finirà in una sequenza da antologia per non resistere alla voglia di baciarlo. Eppure forse Saul è solo un anello di congiunzione fra l’uomo comune e quella che sarà forse la nuova specie. Un gradino intermedio da tenere sotto controllo ma non (ancora) da eliminare, che ancora non può fare a meno della tecnologia per coadiuvare e controllare la creatività e le somatizzazioni della sua psiche. In fondo, in un mondo artificiale dal quale è stato eliminato il dolore e quindi l’avviso, l’argine, l’effetto, Saul crea con il proprio corpo principalmente per ritrovare dall’interno – non per nulla «Body is reality» – un nuovo e finalmente lucido sguardo sulla realtà e sulla mente che sono la causa dei cambiamenti del suo corpo/relitto. Uno sguardo che riporti al centro l’uomo proprio là dove dell’uomo sembrano essere rimasti solo brandelli di carne e gusci vuoti, e che alla vacuità di un’arte solo estetica (emblematica la sequenza che cita il body artist Stelarc nella danza dell’uomo ricoperto d’orecchie, che Saul dice apertamente di trovare vacua nella sua forma di fatto senza sostanza, ma anche la chirurgia «cosmetica» con cui Caprice si fa impiantare escrescenze à la Orlan sulla fronte, o ancora la «questione di volontà» in risposta al poliziotto con una piccola malformazione all’addome che chiedeva a Saul come possa esserci arte in una mutazione puramente casuale) preferisca un senso compiuto filosofico e concettuale, un disegno di evoluzione più grande, un ben preciso messaggio da mandare all’intero genere umano con cui avvisarlo della sua fine ma al contempo rassicurarlo sul suo nuovo inizio: mostrare per fare finalmente rendere conto, far conoscere la nuova specie e i suoi nuovi organi in grado di digerire i rifiuti come epifania per ridare fiducia nella possibilità di continuare in un nuovo stadio evolutivo. Nonostante forse l’evoluzione sia stata soffocata ben prima di potersi diffondere e riprodurre, prima da una madre nella notte e poi dai tradimenti di un Capitale che preferisce l’estinzione alla perdita di profitto. O forse no, perché la rivoluzione dell’homo sapiens non si può fermare, si può solo farle perdere tempo. Il resto sono misteriose barrette di cioccolato viola, sintetizzate in laboratorio dall’uomo, che si rivelano letali per la vecchia carne e invece fondamentale sostentamento per la nuova, onanistiche fibre ottiche con cui penetrare l’estasi dei corpi per scoprire il loro interno, tatuaggi di registrazione direttamente sugli organi che sono una vera e propria firma dell’artista sulla sua creazione, e poi ancora sedie, letti e sarcofagi ipertecnologici su cui vivere e trasformare la propria caducità in show di ribellione. Il fascino enigmatico e ancora irresistibile dell’immaginario di David Cronenberg, che a settantanove anni già compiuti sa ancora arrivare al Festival di Cannes e oscurare quasi tutto quanto passato in questi giorni sulla Croisette con un film straordinariamente complesso, concettuale, perturbante, divisivo, profondamente vivo anche nel suo costante lambire la degenerazione del corpo e l’inevitabilità della morte perché è solo cambiando e diventando un più evoluti che potremo tentare di sopravvivere a noi stessi. Un crimine cinematografico che, già fra i capolavori più centrali dei prossimi anni, viene dal futuro per ragionare sul corpo, sull’evoluzione umana, sull’incisione della carne, sulla società come tumore e sulla tecnologia come contagio, sul senso dell’arte e sulla necessità di una speculazione filosofica al suo interno, e poi sul doppio, sui fantasmi, sulle perversioni del desiderio erotico, sul bello e sul mostruoso, sugli oltre cinquant’anni di carriera del suo determinante autore. Bisogna solo lasciare entrare in profondità questo nuovo Crimes of the future, e dargli il tempo necessario per sedimentare, attecchire, svilupparsi, crescere, farsi ancora una volta carne. Chissà in quali parti del corpo e della mente avverrà l’ennesima mutazione cronenberghiana. Quel che è certo è che convinverci vorrà dire essere migliori di prima, per tutto il resto della vita e forse anche un po’ più in là.

Marco Romagna