CREATIVE CONTROL (2015), di Benjamin Dickinson
Apparentemente è un normalissimo paio di occhiali, ma all’interno delle lenti di Augmenta, “il primo sistema di realtà aumentata realmente convincente”, c’è la chiave per scandagliare il mondo, modificarlo, crearne uno proprio. Creative Control, giunto in anteprima italiana nel concorso Asteroide del Trieste Science+Fiction 2016, mette in scena la New York di un futuro vicinissimo, dissimulando negli abiti fantascientifici e nelle ripetute incursioni nel comico una riflessione esistenziale su come la tecnologia stia prendendo il sopravvento sull’uomo, diventando una dipendenza sempre maggiore e portando verso una pericolosa alienazione. Il secondo lungometraggio scritto, diretto e interpretato da Benjamin Dickinson, con buonissima tenuta narrativa e una splendida fotografia in Alexa ora splendidamente classica nelle panoramiche e ora impegnata in un’incursione lisergica, si serve della realtà aumentata per parlare delle nostre percezioni, dei nostri fallimenti, della nostra profonda ansia in un mondo sempre più esigente e veloce, e non è certo un caso, in questo senso, che l’ambito nel quale si muove il film sia quello della pubblicità, un mondo in cui l’unica cosa che conta è trovare la formula giusta per vendere – poco importa se il prodotto in questione è un inutile farmaco o una fondamentale rivoluzione tecnologica – piegando la propria creatività e la propria fantasia alla soddisfazione del cliente e alle rigorose leggi del capitalismo. Senza mai dimenticare, fra dialoghi a doppio senso e incursioni nel demenziale – si veda la pubblicità del farmaco del ‘capitano’ – Creative control è ricostruzione, è realtà simulata, è la fantasia lanciata al potere non tanto per una soddisfazione personale, ma per rendere concrete le possibilità infinite di un prodotto come Augmenta. Serve, per la campagna pubblicitaria ideata da Dave, un genio che possa usare gli occhiali registrando tutto quello che crea, in modo da poter vendere poi al pubblico non tanto il prodotto, ma una sua applicazione reale, l’arte che dalla manipolazione della realtà può scaturire. Verrà quindi incaricato di partorire lo spot il musicista e attore Reggie Watts, impiegato nel ruolo di se stesso, ma la totale libertà creativa che gli viene concessa, in aggiunta al disinteresse del pubblicitario protagonista che progressivamente perderà i propri ganci con la realtà per lanciarsi anima e corpo nella storia d’amore immaginato e nel consumo smodato di alcool, farmaci e droghe, gli farà consegnare uno spot fuori luogo, provocatorio e incomprensibile per una committenza che chiederà il licenziamento immediato di tutti coloro che ne sono responsabili.
Quello della pubblicità e del futuro prossimo venturo, un tempo solo di poco più tecnologicizzato rispetto al nostro e direttamente conseguente nel quale gli struggimenti umani sono esattamente quelli che proviamo ogni giorno, è un mondo di brindisi, di sorrisi forzati, di bugie e di modelle libertine, che Dickinson mette minuziosamente in scena in un contrastato e brillante bianco e nero, lasciando il colore solo alla realtà aumentata, come fosse più reale del reale, in quell’avatar creato dal protagonista sul modello della fidanzata del migliore amico, della quale la proiezione virtuale ha il volto e la voce, ma non l’indipendenza e la facoltà di scegliere. È un’immagine idealizzata con cui far sesso, che prende rapidamente il sopravvento sulla mente umana, la vince, la svuota. Creative Control è una fuga d’amor sognato, è un’illusione dopo un bacio e qualche sguardo, è la continua rappresentazione di un mondo/monitor che porterà progressivamente il pubblicitario Dave a confondere sempre di più la realtà con il virtuale, il tangibile con il sogno, la carne con l’immateriale, in un rapporto con la fidanzata che si raffredda sostituito dalla proiezione di donna seducente e sedotta alla quale, con un semplice comando delle dita, si possono persino ingrandire istantaneamente le tette. La Sophie secondo Dave è una donna sempre pronta al sesso, calda e innamorata, una bruciante e annichilente passione pronta a consumarsi in una stanza d’albergo che diventa per Dave l’onirica alcova libidinosa, fuga dalla realtà ben presto percepita come realtà alternativa e migliore. Ma è solo un sogno, destinato a crescere e a diventare un film mentale di soddisfazione assoluta e di vita insieme da guardare e da vivere inforcando gli occhiali Augmenta per poi rimanere tale: finzione, illusione, sabbia fra le dita. Creative Control, in un certo senso, è un girone infernale nella solitudine autoimposta, fra amori sostituiti dalla tecnologia, psicofarmaci e droghe che aumentano progressivamente nel dosaggio per reggere la pressione della doppia vita reale/virtuale creata dal pubblicitario, mentre i rapporti di coppia si sfilacciano e trovano soddisfazione solo nei tradimenti, evasione dalla realtà nel materiale oppure nel computerizzato, desideri intimi del subconscio o semplice necessità di conoscersi, dallo yoga all’orgasmo come un’epifania, fino a un ricongiungimento finale irresistibilmente spassoso e necessariamente passato per altre esperienze, per altre realtà, per altre visioni.
È impossibile non pensare a Her (2013), uscito in Italia letteralmente come Lei, in cui Joaquin Phoenix si innamorava della voce del proprio sistema operativo interpretata in originale da una mai così suadente Scarlett Johansson. Ma dove il film di Spike Jonze si limitava a mettere in scena l’innamoramento per una voce non reale come evoluzione sempre più “emozionale” dell’intelligenza artificiale, Creative Control alza l’asticella dando alla donna perfetta anche un corpo, un volto, un colore, un carattere. Ma non si pensi a S1mone, la biondissima attrice creata dal ‘regista’ Al Pacino nel film del 2002 di Andrew Niccol: la Sophie resa dagli occhiali di Dave in Creative Control, per quanto parimenti composta di pixel, non è semplicemente una donna ideale, ma piuttosto l’idealizzazione di un innamoramento, la proiezione di una persona reale e conosciuta, tanto credibile da trascinare in un progressivo isolamento il protagonista incapace di capire quale sia quella vera e quale sia quella immaginata nell’ambito della realtà virtuale, quali siano i ricordi e quali siano le fantasie, quale sia la reale intesa fra i due e quale sia la mera illusione. Mentre Wim, il ragazzo della ‘vera’ Sophie, la tradisce abitualmente con una modella, confidandolo proprio a Dave. In questo senso, il film di Dickinson si configura come una satira esistenziale, come un’astrazione del desiderio, come un viaggio nel disagio atterrente dell’incomunicabilità antonioniana; e del resto il riferimento stilistico e tematico alla trilogia L’avventura/La notte/L’eclisse – ma anche a Blow Up, nel set fotografico di Wim – è evidente ed esplicito. Come pure è esplicito il riferimento, ma qui si tratta di un gioco divertente, a Stanley Kubrick, con la Sarabande di Haendel, già musica di Barry Lyndon, che accompagna una passeggiata sulla moquette di Shining mentre l’eroe torna per l’ultima volta verso casa, con un occhio nero e senza più Augmenta, né amici fotografi, né amori impossibili da vivere con granitica convinzione, scacciato da tutti e lasciato con il cuore in mano, a metà strada fra Woody Allen e Steve Buscemi. Creative control è un film sull’ansia e sull’alienazione, su una tecnologia sempre più intelligente e invasiva mentre l’uomo procede inesorabile verso una robotizzazione forse inevitabile, appiattiti anche nei rapporti interpersonali e negli affetti dall’economia, dalla paura di essere inadeguati e dalle spietate leggi del capitale, contro cui il film sfodera tutta la satira pungente come un paio di corna pronta a emergere fra il melodramma e la fantascienza. Ma Dickinson è amaramente conscio anche del fatto che “Se tu non avessi papà con i soldi non avresti lasciato il lavoro: quando si ha il culo parato, parlare di diritti umani è facile”, e infatti, quando all’ultimo respiro la storia d’amore fra Dave e la fidanzata sembra essere finalmente ripartita con più passione che mai, basterà la prospettiva di tornare in pista in quella vasca di pescecani che è il mondo del lavoro per far vacillare tutte le certezze così faticosamente raggiunte: è un telefono lasciato cadere, è un passo quasi impercettibile, e un semplice vetro sembra segnare nuovamente una distanza siderale. O forse no.
Marco Romagna