“Per lui, ferite del genere erano le chiavi di una nuova sessualità, generata da una perversa tecnologia; e le loro immagini stavano appese nella sua galleria mentale come oggetti esposti in un museo da macello”
James Ballard, Crash
Il corpo, la pelle, la lamiera, la velocità. Eros e Thanatos si rincorrono, si urtano, si stimolano a vicenda. Nella torbida e controversa filmografia di David Cronenberg, Crash è probabilmente il lavoro più germinale, viscoso e complesso. Una filmografia passata nell’ossessione del virus, della putrescenza, della psicologia malata e demoniaca di una società delirante. Dall’esordio con Il demone sotto la pelle fino a Maps to the Stars, ultimo in ordine di tempo, passando per La Mosca, Videodrome e Inseparabili, quello del regista canadese è sempre stato un viaggio nell’inferno, nella disumanizzazione, nella morbosa istintualità della carne, nella violenza, nella mutazione, nell’ibridazione, nell’ambiguità, nel desiderio. Poi, la lettura di Crash, omonimo romanzo di James Ballard nel quale Cronenberg non può che trovare una sorta di summa delle proprie ossessioni. Crash è cicatrici e segni sulle automobili, è pelle e sperma, è sesso e morte. È uomo-animale e uomo-macchina. È la carica erotica provocata dagli incidenti stradali e dalle vittime, è una protesi di ferri che spuntano dalle gambe, è ibridazione fra carne, ferro e sangue, è una profezia slabbrata di sfida al destino. “Su questa Porsche 911 James Dean ha trovato la morte, diventando immortale”, chiude fra gli applausi la propria esibizione Vaughan (interpretato con fisicità straordinaria da Elias Koteas): la sfida come necessità, sopravvivere o diventare immortale.
Il Torino Film Festival, giunto alla trentatreesima edizione, (ri)porta sotto la Mole nell’ambito della Retrospettiva Cose che verranno uno dei massimi capolavori cronenberghiani, rendendone finalmente possibile per curiosi ed appassionati italiani, con un ritardo di quasi vent’anni, l’agognata visione in lingua originale e in una copia 35mm meravigliosamente conservata. L’unica edizione italiana disponibile del film, infatti, distribuita in DVD da CGHV, riserva come pessima sorpresa la totale assenza del menu lingue e sottotitoli, e nelle varie cineteche nazionali non esiste una sola copia in lingua inglese del film, tanto da aver costretto il Lucca Film Festival 2015 a proiettarne per l’ennesima volta una versione sì in pellicola, ma doppiata. Con un doppiaggio -diretto al tempo da Tonino Accolla- meno peggio di altri, va detto, ma che non riesce a rendere giustizia alla voce suadente e provocante di Deborah Unger, al tono ora mesto ora eccitato di Holly Hunter, né alle ossessioni e alla freddezza di James Spader. Interpretazioni di corpo, di carne e di voce come elementi contrapposti ad una mimica facciale quasi inesistente, capace di impreziosire ulteriormente di mistero ed apatia un film già di per sé brillante, denso, torbido. Thriller ad altissimo tasso di erotismo, con respiri di fantascienza postmoderna e futurista quando non addirittura cyberpunk, Crash è fra gli apici dell’ossessione secondo Cronenberg, dove la carne viene incisa per tatuare lividi da impatto, dove i video di crash test possono eccitare più che un film porno, dove il sesso e un colpo di paraurti sulla fiancata si rivelano come le due fasi della stessa morbosa ossessione, dove l’eccitazione porta alla morte e la morte porta all’orgasmo. Dove l’uomo e la macchina diventano una cosa sola, provocanti e provocati, fra sudore e lamiera, sangue e sporcizia, carne e metallo, ematomi e dolore.
Nella sopravvivenza sta l’erotismo, nella morte sta la vita eterna. I continui rapporti sessuali sempre insoddisfacenti, e poi l’intervento esterno, l’auto, la morte, la lamiera, il fuoco e il sangue: si vince l’apatia, si vince la freddezza, si vincono la meccanicità e l’abitudine, torna il desiderio, giunge finalmente un appagamento torbido e controverso sul sedile posteriore dell’auto, che sia per strada o in un autolavaggio. Ma giunge anche la tragedia, accolta con altra apatia, altri incidenti ed altro sesso selvaggio. David Cronenberg mette in scena tutto ciò con una regia asciutta ma presente, lontana dalle spettacolarizzazioni hollywoodiane ma al contempo necessariamente pressante nelle allusioni sessuali e nell’estetica della mutazione. È una macchina da presa che sta sempre vicina agli attori, ne mette in risalto tutta la recitazione prima monocorde e poi meccanica, li chiude negli angoli della propria nudità e della propria ambiguità. Uno stile radicale, fatto di dettagli e sequenze notturne, che rifiuta il ralenti ma preferisce abbracciare un realismo morboso, inquietante, magnetico e magmatico. David Cronenberg porta con Crash il virus nell’eccitazione, la mutazione nell’ambiguità, l’ossessione nel realismo. In fondo, il cinema del cineasta canadese è sempre lo stesso Demone, che da sottopelle continua a cambiare forme, diventa auto, diventa cicatrice, diventa ferro. Diventa stridore dei freni e odore di ormoni, diventa una spider cappottata sotto la quale sdraiarsi e possedersi, diventa, forse, l’unico paradossale modo per amarsi.
Marco Romagna