Giunta sulla Croisette in veste di presidente di giuria della sezione Un Certain Regard, la regista britannica Andrea Arnold ha approfittato del suo soggiorno francese anche per presentare in anteprima mondiale, all’interno della neonata sezione Cannes Premiere, la sua ultima fatica Cow. Un documentario di osservazione che per novanta minuti conduce lo spettatore all’interno di una stalla di allevamento, a stretto contatto con Luma, una vacca che conduce i suoi giorni in maniera piuttosto ripetitiva soggiogando agli ordini dei fattori che la condurranno a un finale tanto prevedibile quanto comunque spiazzante. Probabilmente sono ancora vive, negli occhi degli spettatori più cinefili, le immagini di Gunda, il documentario di Victor Kossakovsky presentato alla Berlinale 2020 che racconta la vita di una scrofa. In effetti, Cow si avvale di una struttura progettuale decisamente simile a quella adottata dal documentarista russo, eppure Arnold decide di fare completamente suo il disegno narrativo e lo abita con il cinema vivo e pulsante che la caratterizza. Sposando pienamente lo stile osservativo della corrente documentaristica che maggiormente sta trovando risonanza negli anni più contemporanei, il film si allontana dal ricercare uno stile contemplativo o poetico. Ad Arnold non interessa minimamente scuotere lo spettatore con immagini potenti, ricercate o dilatate. Cow non si avvale del bianco e nero o di ralenti, e non smania assolutamente nel voler restituire un’idea di cinema geometrico, studiato, ricercato. La regista britannica, “semplicemente”, invade la realtà che vuole indagare e posiziona le sue macchine da presa all’altezza degli occhi di Luma. Così, i giorni passano in maniera monotona e anche la percezione che il pubblico avrà dell’ambiente in cui viene catapultato risulterà essere parziale, o comunque riduttiva rispetto il privilegiato punto di vista umano a cui siamo abituati. I fattori si vedono ma quasi mai in volto. Notiamo i loro gesti, i loro strumenti da lavoro, udiamo i loro comandi e veniamo completamente accompagnati verso un nuovo capitolo della giornata. Il tutto accade in maniera fluida e naturale, quasi come se la regista (e noi con lei) non avesse alcun potere di intervento sulle immagini che è intenta a catturare.
Così, dopo aver raccontato da vicino lo sbando generazionale ed esistenziale dei giovani statunitensi nell’anno dell’elezione di Donald Trump, Arnold sembra voler ripercorrere nuovamente quella strada, indagare il medesimo tema adottando però una lente cinematografica (quasi) del tutto diversa. In effetti, in quello che potrebbe essere un paragone un po’ azzardato (ce ne rendiamo conto), Cow risulta perfettamente indirizzato a perseguire la strada introdotta da American Honey, quasi ne fosse un ideale seguito. Lì il corpo era alla base della riflessione della regista. Un gruppo di giovani doveva fare i conti con il limite delle proprie scelte, confrontarsi con una società marginale ma invadente per il suo conformismo. I giovani statunitensi ascoltavano tanta musica (esattamente come quella diegetica di Cow durante le fasi di mungitura) e cercavano freneticamente un attaccamento alla vita intesa come esperienza edonistica dettata dalla caducità dell’esistenza. Sesso e soldi sembravano i valori guida di una generazione privata ormai di qualsiasi riferimento cardinale e, proprio per questo motivo, facilmente influenzabile. Le giornate di Luma, allo stesso tempo, non sono poi così del tutto lontane. La mucca continua a vivere con il solo scopo di nutrirsi. Viene costantemente accudita e imbeccata dagli allevatori che la trattano con i guanti (in tutti i sensi) senza però dimenticare il motivo principale che li spinge a un simile comportamento. Luma si accoppia con il toro di turno, dà alla luce alcuni vitelli e, quando il tempo non le permetterà più di sostenere simili ritmi, verrà sacrificata sull’altare del mercato della carne. Non può che essere la morte a porre fine a un’esistenza priva di stimoli, di indipendenza, di scelte azzardate. Luma guarda dritto avanti a sé. Vede solo il prossimo passo, il prossimo impegno fissato sull’agenda degli allevatori.
Il suo corpo, scandagliato dalle cineprese di Arnold che non gli lasciano un attimo di tregua per l’intera durata del documentario, è merce purissima da trattare, e far fruttare al meglio. Luma vive alla giornata e si lascia accudire, coccolare, condizionare dagli umani che vede solamente di striscio, quasi accarezzandoli con lo sguardo, ma che hanno il pieno potere sulla sua esistenza. Impossibile quindi non intravedere in controluce in questa tessitura la stessa denuncia mossa in American Honey. Anche lì si provavano a plasmare giovani menti, giovani corpi, e proprio per questo motivo potrebbe non essere un caso che il “tesoro americano” che dava il titolo a quella pellicola, un tempo, nella mitologica e “classica” (cinematograficamente parlando) età dell’oro statunitense che risponde al nome di Far West, non era altro che il bestiame. Luma è il tesoro americano. Un tesoro che viene gelosamente custodito, allevato, cresciuto, illuso di poter condurre un’esistenza unica, indipendente, viva e poi condotto per mano verso un finale cinico e spietato. È in questo senso che Cow si inserisce perfettamente nel solco inaugurato da American Honey. Se lì l’idea di Andrea Arnold era quella di perseguire uno stile grezzo, asciutto e minimalista, qui il discorso si fa ancora più esplicito e radicale visto il contesto cinematografico in cui il film si inserisce. E, di nuovo, tanto allora quanto oggi, se alla fine della proiezione lo spettatore riesce a commuoversi o anche solo a empatizzare con il soggetto, il merito è quello di un cinema pulsante ma appositamente vacuo, in cui il pubblico è chiamato direttamente a riempire la lacuna e interagire all’unisono con le immagini. Non propriamente per indagarle, interpretarle o contemplarle (come invece, appunto, accadeva in Gunda), quanto per confrontarsi da un punto di vista emotivo. Solo così, dopo un’ora e mezza a contatto diretto con il corpo di una mucca, lo sparo di un proiettile che improvvisamente squarcia il silenzio assumerà la dimensione non tanto di uno spavento improvviso, quanto di una ferita consapevole ma, per questo motivo, ancor più dolorosa da affrontare.
Simone Soranna