UN COLPO DI FORTUNA – COUP DE CHANCE (2023), di Woody Allen
Woody Allen è uno dei registi più controversi della storia del cinema, quasi esclusivamente per motivi extrafilmici. Quella che era un’icona della commedia newyorchese e statunitense è adesso più che mai guardata come simbolo di un patriarcato hollywoodiano di vecchio stampo da debellare per rinnovare il cinema, a causa delle sue azioni nel contesto moralmente grigio della relazione-famiglia con Mia Farrow – un periodo oscuro, nella vita di entrambi e a causa di entrambi, che, dopo un primo viavai processuale, ha portato prima alla condanna legislativa della Farrow e poi negli ultimi anni alla gogna pubblica ad Allen. Gogna pubblica che, nei fatti, si è solo dimostrata con l’interruzione di un appoggio economico da parte delle major americane ai suoi film, oltre che in una crescente aura di infamia nei suoi confronti negli occhi dei più giovani cinefili e manifestanti liberali, che hanno per esempio organizzato un corteo al Lido contro la presenza dell’autore al festival di Venezia. Ma appunto, ciò è extrafilmico, e non è nostro compito fare da bussola morale all’interno di un caso giuridico che appartiene a un Paese oltreoceano. Questa controversia ci è difatti utile come contesto per arrivare a Coup de chance – Un colpo di fortuna, l’opera ultima di questo prolifico e anziano regista americano tuttofare, uno che ha fatto scuola nella commedia e nel dramma, un autore che a suon di fare un film all’anno è arrivato ormai a scrivere e a dirigere i suoi film col pilota automatico. Accusabile di manierismo, l’Allen degli ultimi vent’anni preleva idee sparse da centinaia di appunti segnati negli anni e le incasella, un film alla volta, in una filmografia sempre più rigorosamente eguale solo a essa stessa, un mondo unificato nel suo linguaggio semplice, mai violento, spesso leggiadro, con cui ormai quasi sempre, più o meno esplicitamente, affronta tematiche esistenziali. Quella che può sembrare una dialettica autoreferenziale è forse più che altro una lente mediante cui osservare il mondo, il contemporaneo, con una sua lucidità. Le idiosincrasie alleniane diventano noiose quando la realtà è noiosa, senili quando la lente usata è quella della senilità. La reiterazione è una variazione su tema, come un assolo di clarinetto jazz – a volte, si “stecca”, ma a volte “steccare” è proprio quello che serve per mostrare o svelare qualcosa. Anche qualcosa di ridicolo, ma che funziona, che regge, che ha uno stretto legame con l’esistenza materiale. La raison d’être di una storia, di un film. Il ritorno in auge per i media del caso Allen-Farrow col movimento MeToo ha interrotto l’invidiabile consecuzione matematica di ‘un film all’anno’ nella sua filmografia tra l’uscita di Un giorno di pioggia a New York (2019) e quella, eternamente posticipata, di Rifkin’s Festival (2020), una delle opere più cinefile e meno riuscite di Allen, in cui si rifà ai mostri sacri del cinema europeo con cui è cresciuto per affrontare (ed evitare) gli argomenti scottanti che di solito prende di pieno petto. Gli ultimi due film americani di Allen sono film plastici e posticci, tra le sue opere più autoreferenziali, amare in profondità per quanto divertenti in superficie; sono anche film che si aggrappano alla superficie, urlata dalla fotografia di Storaro, e che vogliono lasciare allo spettatore la libertà di capire come andare in profondità, quanto c’è da interpretare, quanto è solo divertissement. In altre parole, i film di Woody Allen, come tutti i film d’autore, possono essere interpretati e considerati in vari modi, ma i più comuni sono due: come film di genere, uscite commerciali per il pubblico generalista, e dunque decontestualizzati, o come mutazioni di un prototipo, nuove versioni di una cosa che abbiamo già visto e valutato nello scorrere degli anni, e dunque contestualizzati rispetto al loro autore.
Negli ultimi anni, è sempre stato più difficile staccare il cinema di Allen da lui stesso, più per la ciclicità tematica, dialettica e psicologica dei suoi film, nonostante il suo volto come attore sia apparso sempre meno (l’ultima volta in To Rome with love, se escludiamo la voce narrante di Cafè Society), che per la sua reputazione. Magari non è affatto un problema, una formula che funziona è ripetibile. Coup de chance, tuttavia, per la prima volta porta un altro cambiamento radicale, quello della lingua, e difatti, anche se potrebbe essere l’ultimo o uno degli ultimi film di questo regista quasi novantenne, è il suo primo film francese, il suo primo film totalmente europeo e non turistico. Il che ci fa fare ulteriori considerazioni. Ricordiamo per esempio Hollywood Ending, ormai di vent’anni fa, in cui Allen interpreta un regista che per un breve periodo della sua vita, mentre gira un film, senza spiegazione medica o scientifica o razionale, perde totalmente la vista. Il film viene demolito dalla critica cinematografica e dal pubblico statunitensi, ma viene ben accolto in Francia, dove il personaggio di Allen fa per dirigersi nelle ultime inquadrature di Hollywood Ending. Ecco, quel momento è arrivato nella vita reale, il burlone è stato smascherato in patria, ma le recensioni negative e positive dei suoi film sono da anni sempre le stesse, è il pubblico che è venuto a mancare; per cui si arriva al film francese, nuovo pubblico, nuove coordinate per molti versi in odor di Nouvelle Vague, ma non proprio. La natura alleniana del mondo è evidente, in una Parigi che non è mai tanto sembrata simile a New York ricca di dialoghi che scorrono naturalmente, e il Caso si incastra col viavai sentimentale degli umani in un meccanismo avvolgente che mischia la leggerezza della commedia a un’atmosfera da thriller nel contempo ironica e asciutta, rievocando molti tra i film più drammatici del regista: Crimini e misfatti e Match Point innanzitutto, ma anche il sottovalutato Sogni e delitti e i più recenti Irrational Man e Wonder Wheel. Tutti film con al centro la morte, l’omicidio, affrontati con un pessimismo cosmico che concerne le coincidenze tragiche del vivere comune, film che non concernono né evocano la spiritualità preferendovi un rigore solitamente distante dalle tinte drastiche del mélo. Però c’era sempre stato sinora un alter-ego personalizzato su misura del suo autore, un punto di vista comprensibile; una sorta di eterno narratore più o meno contingente, analogo al Nathan Zuckerman di Philip Roth. Solo i film di Allen più nichilisti, Match Point e Sogni e delitti, sono privi di controparti del regista, ma hanno protagonisti luciferini o ciechi che sembrano manifestare le sue paure interiori sul mondo. Coup de chance prende invece una via per ora inedita: trasformare con sottigliezza l’«allenismo» di maniera della forma del film in un velo attraverso cui spiare, percepire l’aneddotica tragica del solito Caos delle solite relazioni amorose, senza che vi sia una forte direzione empatica o un riconoscimento caratteriale. I quattro protagonisti sono archetipi più che mai freddi, pedine del meccanismo finale – Jean (Melvil Poupaud) è un cattivo bello e idiota, Alain (Niels Schreider) è una tale macchietta da sembrare la manifestazione di una fantasia, Fanny (Lou de Laâge) sembra quasi un’inversione della ‘final girl’ dei film horror ed è la chiave emotiva del film ma quasi mai lo sguardo portante, e la madre Aline (Valérie Lemercier) è un’ulteriore inversione, ironica ma non umoristica, sull’archetipo della madre ebraica controllante (a cui Allen ha dato la forma definitiva col suo memorabile e surreale cortometraggio di New York Stories).
Una macchina sfreccia per Parigi sulle note di Cantaloupe Island di Herbie Hancock. Più e più volte. Cuori spezzati, bicchieri di vino a bordo letto, tra una battuta di caccia e l’altra. Raramente un thriller ha avuto così poco peso, e raramente una commedia è stata così secca. Che Allen ormai giri i film con un meccanismo sempre uguale a se stesso è risaputo – come è popolare l’idea che l’attuale collaborazione con l’autoprofessatosi autore della fotografia Vittorio Storaro, uno dei più importanti direttori della fotografia della storia del cinema, giovi poco al suo rigore, poiché i colori accesi e innaturali del suddetto conferiscono un’iper-espressività barocca anacronistica. Ecco, sì, si potrebbe dire questo. Ma in Coup de chance gli eccessi di Storaro diventano quasi invisibili quanto la regia, entrambi atti a rinforzare un senso di anomalia e distacco, che giova al film, contribuendo a questo magico equilibrio tra forti disequilibri (di genere, di risposta dal pubblico, finto e reale). Allen è uno degli ultimi rimasti a fare cinema d’autore per accumulo, una storia che si reitera sempre uguale con variabili che cambiano, come Almodovar, o in passato Bergman e Rohmer – è situazionistico e il suo sguardo aleggia sempre di più in mezzo alle cose che filma, ed è sempre meno appiccicato al proprio occhio. Anche le ossessioni svaniscono nello scorrere degli eventi, finché non bisogna riconoscere di avere avuto un colpo di fortuna. Per esempio il discorso sul Caso di Coup de chance, che vanta uno dei finali più brillanti di tutta la carriera del regista, è il più ottimista che abbia congetturato sinora, in modo tale che questo miscuglio strambo di registri può scivolare via anche allo spettatore meno avvezzo al suo cinema, intrattenendo e lasciando qualcosa da portarsi a casa dopo la visione. Qualcosa su cui comunque non soffermarsi troppo, che alla fine, perché? Per nulla, a proposito di nulla.
Nicola Settis