COSMOS (2015), di Andrzej Żuławski
“E’ possibile che nulla mai possa esser espresso realmente, restituito nel suo divenire anonimo, che nessuno sia mai capace di esprimere il balbettio dell’istante nascente? Come mai noi, nati dal caos, non possiamo mai accostarci ad esso, non facciamo in tempo a dargli un’occhiata che subito, sotto il nostro sguardo, nasce l’ordine… e la forma?”
Witold Gombrowicz, Cosmos, 1965
Prima di cercare di parlare di questo film, sono necessarie per me tre premesse. 1 – Ho sempre apprezzato il lavoro di Andrzej Żuławski ma, fino al maggio scorso, non sono mai riuscito a sentirlo fisicamente mio, non sono mai riuscito ad abbandonarmi allo spazio stesso del suo set, non sono mai riuscito a sentirmi scorrere nelle vene una sua opera, e anche per questo motivo per me non ha senso cercare un appiglio di Cosmos all’interno della sua filmografia, a distanza di quindici anni dal suo ultimo lavoro. 2 – Queste parole, più che mai vacue, seguono una seconda visione locarnese dopo l’ultima proiezione del film al Marché del 68esimo Festival di Cannes; ringrazio infinitamente Roberto Turigliatto e in special modo il produttore Paulo Branco (senza di cui questo film in nessun modo avrebbe potuto vedere la luce) per avermi permesso di accedere a quell’emozionantissima proiezione privata. 3 – La sinossi del film, anche nel pressbook, cita impiccagioni, due ragazzi confusi e sbandati, un amore ed un viaggio; sembra apparentemente un thriller, in fondo lo è, ma l’assassinato può solo essere il cinema, o meglio, la sua rappresentazione.
Il giovane e belloccio scrittore dalla folta chioma Witold (Jonathan Genet, dal volto incredibile) con l’amico Fuchs (Johan Libéreau) entrano in una pensione portoghese. Catherette (Clementine Pons) una ragazza con una bocca deforme, timidamente li accoglie. E proprio da questa prima scena che Żuławski riesce a catturare l’essenza del libro, attraverso una sensualità che si crea davanti ai nostri occhi, come sotto lo sguardo di Witold, che sta scrivendo un romanzo sul suo computer. Inizialmente si gioca in questa casa, ma nessuno sa chi sia il burattinaio. Subito regna la clownesca e splendida Sabine Azéma, a fondocampo la sensuale e pretendente attrice Lena (Victoria Guerra), e il grande Jean-Francois Balmer nel ruolo del marito della Azéma, Leon Wojtys, costantemente impegnati a celebrare come ridicolizzare se stessi. E’ Witold a cercare di prendere in mano il tutto, ma sarà la follia a segnarlo, prima del resto della truppa perché più esposto alla ricerca stessa del senso. Da qui il caos, formatosi sotto i nostri occhi, come una “costellazione falsa, inventata ed imposta” (dallo stesso Gombrowicz). Dalla sequenza al paragrafo, poco cambia; la seducente Catherette, il passero impiccato, il bastone misterioso, il gatto appeso, il dito sulle labbra. Laddove Gombrowicz diventa tortuoso come un’insenatura di cui non puoi vedere la rientranza del mare, Żuławski dipinge frenesia e lirismo allo stato puro, l’immagine si strappa e singhiozza, vola e sprofonda di fotogramma in fotogramma. Nessun valore ha ancora il senso dell’essere, ad eccezione del senno metafisico e folle della creazione. Il non-sense si divora tutto, dallo stufato di pollo all’ordine mondiale, passando per il cibo infestato, con ejzensteiniana memoria, da formiche, vermi e bruchi, il resto è il caos. Lo straordinario potere dell’arte narrativa di Gombrowicz nel rendere questo caos non fa altro che alimentare ed influenzare maggiormente Żuławski nella deriva continua dei sensi a cui costantemente ci ha abituato, ma che qui come non mai raggiunge dimensioni straordinarie.
Gombrowicz ha sempre parlato di Cosmos non solo come una specie di testamento e(ste)tico, ma quasi di una visione “dietro le quinte” del mondo. Żuławski naviga nell’empatia stessa che trova con uno scrittore così unico e con un testo così impossibile, quell’empatia fondamentale per ri-creare dopo il suo lungo silenzio. Il loro rapporto diventa un commento nascosto delle proprie personalità, dalle loro lotte con il mondo alle loro visioni d’amore. Fino al dolce svelamento del cinema, che rivela il gioco irrisolto della vita e dell’arte, dell’uomo e delle forme. Parte da una traccia confinata nel rapporto tra realtà e creazione, ma forse è proprio nei confronti dell’amore che si crea la mimesi più straordinaria e funzionale tra i due autori. “Se non hai quello che ti piace, allora ti piace quello che hai.” Witold “non può amare” Lena dalle labbra bellissime perché vittima verso il “disgusto” per se stesso. Gombrowicz guarda i giovani sbandati di Sartre e Pasolini, il loro abominio dell’esistenza in cui il pensiero si rivela essere un valore in sé; perché in fondo lo stesso pensiero, che nega l’esistenza, fa esistere. Solo il superamento stesso del concetto del pensiero può arrivare all’atto, Witold nella follia ansiosa più assoluta potrebbe accarezzare il labbro di Lena, in un senso primordiale di peccato universale, che squarcia inesorabilmente l’ordine delle (sue) cose. Anche per questo Gombrowicz ha sempre affermato che l’umanità è disumana, esponendo il suo lettore a tentare ancora il percorso più difficile ed estremo, quello che dal pensiero conduce al delitto, necessario subconscio di una società costruita su “i loro orrori, la loro sporcizia, i loro crimini, chiudendosi in se stessa.” Żuławski, come Gombrowicz, definisce questa apocalisse umana accompagnandola con una risata, perché quei “loro” non siamo altro che “noi”. La gioia della creazione, è l’unica libera resistenza al male del pensiero, è la grammatica primaria dell’emozione e del sentimento.
Gli scambi di dialogo più lunghi tendono a trascinare oltre la fisicità di una narrazione che si fa scandalosa quanto viva nel tentativo spaventosamente umano di una ricerca di senso, seppur minimo e personalissimo, del reale. Visivamente, Żuławski pare subire continuamente il fascino di ciò che sta cercando di dirigere, e dello spazio stesso del set che sembra esplodere continuamente sotto i suoi occhi. Nella lunga serie dei vari primi piani necessari nel raccontare i suoi personaggi demenziali quanto giganteschi e nei piani sequenza che trasudano continuamente disorientamento, si limita a confondersi nel set (sempre più teatro del mondo), ma è al montaggio invece che lavora per non dare nessuna forma precostituita a questa odissea nei sensi e nel senso delle cose. Apparentemente, la destrutturazione di Cosmos parte da una coscienza surrealista di rappresentazione delle affinità, tra le preoccupazioni mascherate dall’idiozia della società borghese e le limitazioni della mente umana di comprendere le sue circostanze. Ma presto ci si accorge che questo probabilmente è solo un depistaggio, perché nella mente di Żuławski, l’unica via di fuga possibile dal caos del cosmo è proprio la libertà, quella del punto di vista come dell’atto rivoluzionante dello svelamento della macchina della rappresentazione della vita stessa. Dalla presa di (in)coscenza dell’autore, proprio dove il gioco con Gombrowicz diventa sottilissimo e splendido, il film deriva in ellissi di gioia e di dolore, il linguaggio esplode nella sua liquida fatalità del vivere come del filmare, dalla fortissima quanto nascosta simbologia politica; l’affermazione dello stare qui non fa altro che ammettere una volta di più l’impossibilità di comprensione, di riconciliazione con lo spazio ed il tempo in cui il destino spesso ci ha condannato o regalato nell’esistere.
E se “anche Gombrowicz non sapeva mai come finire i romanzi, né quale senso avessero”, il sublime non-finale del film alimenta e rilancia, fino alla fine, la costante incertezza dell’essere e le infinite possibilità del mezzo Cinema. Viene in mente Educação Sentimental di Julio Bressane, opera definitiva del 2013 della quale Cosmos è per molti versi un ideale controcampo. Nel film brasiliano, una storia d’amore diventa, come ultimo grido di libertà, la storia d’amore verso il mezzo in grado di raccontarla. Qui è invece un dolcissimo disvelamento, il romanzo che diventa un film, le luci che entrano in campo, in un carrello del quale viene sapientemente mostrato il binario. Se Alain Resnais nel 2012 sosteneva che Vuos n’avez encore rien vu, qui la prospettiva si ribalta, perché “non c’è più niente da vedere”. Sarà dura per chiunque, nel concorso locarnese, combattere contro un film del genere: lisergico, straniante, surreal-um (tiriririri), ma profondo quanto sfacciatamente libero.
Erik Negro