C’è il piano della pura finzione che riporta sul palcoscenico e in tournée la coppia come gabbia nell’omonima pièce di Franca Rame e Dario Fo, c’è il piano del puro documentario che parte dalle prove degli attori prima della messa in scena e che si estende fino alle riunioni in cui confrontarsi (e non necessariamente trovarsi, in un gap generazionale forse insormontabile anche nelle istanze di ormai diversi femminismi) sul tradimento e sulle dinamiche interpersonali e familiari di nuclei orgogliosamente poligami o poliamorosi, e poi c’è il meta-piano intermedio nel quale Chiara Francini e Alessandro Federico (ma anche Karl Fredrick Lundqvist realmente compagno di vita dell’attrice e scrittrice fiorentina protagonista del film, e in realtà tutta la famiglia) riscrivono e reinterpretano loro stessi impegnati in una costante sfida artistica e dialettica alla ricerca, forse vana, dell’amore e della felicità. Inevitabilmente personaggi pubblici e privati, oltre che persone, eppure non per questo meno veri o sinceri e soprattutto autoironici nel trasformare di fronte alla macchina da presa stralci della propria vita e delle proprie litigiose incomprensioni in una commedia che è in qualche modo essa stessa la propria vita, magari esacerbando verso una risata le spigolosità del proprio carattere e i propri difetti, ma proprio per questo aprendosi senza alcuna remora e fotografando fino in fondo, lucidamente, la propria identità personale, le proprie idee, la propria innata, contagiosa e magari un po’ scorretta simpatia. Fra i commenti sottovoce del pubblico e il crescente sovrapporsi della messa in scena e del quotidiano, fra un salotto in cui cercare di capire incontrando arzilli anziani felicemente in coppia aperta da decenni e una festa in cui ritrovarsi fra i giovani, fra un palcoscenico e una hall in cui confrontarsi direttamente con gli spettatori a fine rappresentazione, fra il caos di un’assemblea di gruppo e magari la solitudine dello schermo in selfie di uno smartphone installato nel bagno per un provino. Fino all’inevitabile incontro/scontro fra la normalissima famiglia a tre e la formazione tradizionale e monogama, inevitabilmente cattolica e gelosa, della pur «moderna» e progressista Francini. Un insistito intreccio di livelli destinati continuamente a slittare e a rispecchiarsi l’uno nell’altro, con cui Federica Di Giacomo, con la collaborazione alla sceneggiatura della sua prima attrice e di Mario Sesti, parte dalle riprese della riproposizione del Coppia aperta quasi spalancata teatrale per espanderne verso la quotidianità e la meta-stratificazione i confini e gli orizzonti. Per un omaggio accorato e intelligentissimo, tanto antropologicamente curioso nei confronti delle gioie e delle pastoie (ma anche delle reali libertà) di coppia (aperta) quanto manifestamente teorico nell’interrogarsi sul senso del (farne) teatro e cinema (non solo documentario), che ribadisce la piena contemporaneità dell’opera del 1983 rilanciandone e attualizzandone le domande, le risposte, i dubbi e la satira femminile sulle aperture unidirezionali e sulle corna da (non) sopportare (più), e che nel frattempo, come oramai di consueto nella carriera della sempre più sorprendente regista spezzina, sposta il discorso nel sovrapporsi fino a coincidere di realtà e messa in scena, di vero e falso, di essere e interpretare, di sentire e di mostrarsi. Una speculazione sul reale e sulla sua rappresentazione, o se si vuole più in generale sulla verità che può emergere dalla libera espressione, su cui Federica Di Giacomo, già dal precedente Il palazzo costruito sulle immagini d’archivio di un film à la Factory warholiana che non avrebbe mai visto la luce, ma a ben vedere già dagli esorcismi (veri? Falsi? Non si può sapere, è solo questione di Fede) di Liberami, sta imperniando sempre più la sua carriera, in un costante procedere e problematizzarsi di uno stesso ragionamento profondo come la stessa esistenza umana in una società in perenne mutamento, e proprio per questo potenzialmente infinito nelle sue sfaccettature.
Presentato come evento speciale fuori concorso alle Giornate degli Autori annesse a Venezia81 giusto il giorno prima del debutto in distribuzione in sala, Coppia aperta quasi spalancata è lo spettacolo che va avanti, sera dopo sera e teatro dopo teatro, mentre intorno al palcoscenico la realtà si rispecchia sempre più nella finzione e la messinscena progressivamente si innesta nel vero. Una commedia, un documentario, un film-saggio molto più complesso di quanto la sua forma apparentemente scanzonata possa far sembrare, un omaggio critico a Franca Rame, uno studio antropologico che, fra perfette coincidenze e piccole deviazioni fra la parabola della persona e quella del personaggio, incontri in cui confrontarsi con la comunità poliamorosa e con quella neo-femminista sulla possibilità o non possibilità di una nuova educazione sentimentale, «cerchi di parola» in cui raccontarsi ed esprimersi a costo di finire di negare le possibilità di dialogo in nome di un’autoprotezione dalla società che elimini perfino la possibilità dell’altrui giudizio, e dall’altra parte estemporanee modifiche al testo che diventano (apparente?) pomo della discordia fra gli attori, pone ancora una volta e con straordinaria intelligenza il cinema di Federica Di Giacomo in quella zona grigia e ambigua che è al contempo sia vera sia falsa. Fino agli sfregamenti, agli applausi e agli abbracci, fino ai pregi e ai limiti delle due differenti modalità di vita e di relazione, fino forse a smettere di chiedersi cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, ma semplicemente imparare ad accettarne l’esistenza come un differente livello di connessione interpersonale e affettiva. Fra chi pensa che la monogamia nient’altro sia che un «compromesso medievale che considera l’amore come (pos)sesso» e il poliamore come un nucleo familiare stabile e felice basato sul consenso e sulla più completa trasparenza, e chi invece da fuori continua a considerare i sentimenti aperti una mera giustificazione dietro alla quale nascondere le proprie pulsioni più perverse e i propri tradimenti. Fra chi pensa che «in meno di cinque persone non sia possibile fare figli» e chi invece ne ha fatti uno alla volta con una donna alla volta, ma proprio così ha paradossalmente reso la monogamia una sorta di poli-serialità. Passando per il leone fuggito dallo zoo e realmente in giro per le strade di Ladispoli, per l’auto chissà come realmente finita nella fontana di fronte al Colosseo Quadrato, e per il reale quanto legalmente impossibile del matrimonio triplo fra Sara e due uomini della sua vita, in una cerimonia sulla spiaggia che chiude definitivamente il confutare e ribaltare lo stereotipo dell’uomo bigamo e traditore scegliendo una famiglia allargata con una donna al centro del triangolo, circondata dall’amore alternativo di due mariti e di una figlia ben felice dei suoi due papà. Il resto sta tutto nel continuo stratificarsi fra l’Antonia di Franca Rame e l’Antonia di Chiara Francini, e poi ancora fra la Chiara Francini attrice, la Chiara Francini reale, la Chiara Francini personaggio, la Chiara Francini che in prima persona, e in ogni sua sfaccettatura, cerca di approfondire il testo che mette in scena mettendosi in cerca di chi la pensa diversamente. Passando per un patriarcato che forse è sopravvalutato in un’ossessione woke che in nome dell’inclusione attenta all’italiano omettendo tutte le vocali finali o che forse è sottovalutato nei suoi effetti su una donna della generazione precedente, e che di sicuro segna un solco apparentemente incolmabile fra generazioni che non riescono a parlare la stessa lingua, ma che finiranno lo stesso per intersecare tutte le parabole e tutti i filoni antropologici e narrativi del film. Fino alla realtà di un club fetish-scambista che ancora una volta apre alla finzione onirica di un incubo, fino a una casa nel bosco sospesa fra un piccolo paradiso e Antichrist (o forse ancora una volta semplicemente fra il vero e il falso), e soprattutto fino alla sostituzione del co-protagonista Alessandro Federico con Omar Paolo Sandrini, con il quale ricominciare ancora una volta da capo a far rivivere un testo immortale e senza tempo, ma anche l’eterna ricerca antropologica con cui rimetterlo costantemente in discussione. Forse l’unico modo per rinnovarne giorno dopo giorno la profondità e la piena attualità, di certo il cuore dell’ennesimo grande film di Federica Di Giacomo, che nella sua scatola di meta-livelli continua a esplorare l’uomo e il cinema, le grandi e piccoli ribellioni alla società e il senso stesso del documentare, la verità e la sua messa in commedia, lo slancio artistico e le sue infinite stratificazioni. Questa volta, più che mai, senza smettere nemmeno per un attimo di far ridere di gusto.
Marco Romagna