COPENHAGEN COWBOY (2022), di Nicolas Winding Refn
Il percorso di Nicolas Winding Refn nel cinema è unico e un po’ complesso; è difficile prevedere dove andrà a parare la sua carriera nel giro dei prossimi anni, visto come nei tempi più recenti il suo stile è virato verso un’astrazione autoreferenziale che solitamente i grandi autori raggiungono solo nelle ultime fasi delle loro filmografie. È da più di un decennio che ogni suo nuovo lavoro sembra essere quello definitivo a simboleggiare il ‘perché’ del suo fare cinema, e ogni volta per ragioni diverse che lo rendono un artista più enigmatico. Copenhagen Cowboy è la sua ultima opera, una serie Netflix ‘unicum’ sia tra le produzioni di Refn che nel catalogo del sito, ed effettivamente sembra un nuovo scoglio da superare, un nuovo traguardo dell’autore, oltre che uno dei più eccentrici prodotti curati dal servizio streaming più importante al mondo. Ma cerchiamo di capire perché.
Innanzitutto, l’autore. Refn è un artista egomaniacale, sempre alla ricerca di un assoluto o di una tendenza da esplorare, rinnovare. Ha una variante del daltonismo per la quale non vede i colori medi, per cui volontariamente egli tende a costruire inquadrature la cui saturazione dei colori è virata al massimo, in modo da avere sempre immagini vibranti e vive che anche lui possa comprendere. Dopo gli esordi ‘cinéphile’ che affrontavano le dinamiche di potere nell’underground criminale danese, NWR ha cominciato a lavorare fuori dal suo Paese con film più lenti e riflessivi, già atti a delineare uno stile; al flop del primo film internazionale Fear X, sono seguiti i primi due effettivi film contenenti ambiziose dichiarazioni d’autore, Bronson e Valhalla Rising, entrambe sceneggiature che concernono l’alienazione della violenza (da carnefice, da vittima e, soprattutto, da spettatore), il primo un tributo psichedelico e crudo ad Arancia Meccanica colmo di rotture della quarta parete e sequenze videoclippare dal gusto anni ’80, il secondo un’epopea vichinga dall’estetica minimale in cui sono posti in contrasto violenza brutale ed estasi spirituale reminescente di Terrence Malick. Le ceneri del debutto sul grande schermo con la trilogia realista di Pusher, che raccontava la ferocia e la spinta verso il male dell’uomo come una sorta di gioco ciclico tra ambizioni maschili in eterno conflitto di predominanza, diventano con Bronson e soprattutto Valhalla la fenice di un cinema esistenziale e lisergico, che dei silenzi e delle immagini enigmatiche fa la propria bandiera. Un tipo di cinema non per tutti – c’è chi di Refn predilige lo stile meditativo e personale, e chi non lo sopporta preferendovi i film più legati a un genere o le scene più dialogate, narrative, meno estetizzanti. Ormai NWR, da questi due film in poi, si trova incapace a trasformare in tesi fatte e finite le parabole dei suoi protagonisti/alter-ego violentissimi, perciò si limita a esporli in un contesto dinamico, urlante, facendo prevalere l’impatto del significante alla profondità del significato. Questa sua maniera è appunto discutibile, ma è indubbio che in Drive si sia cristallizzata in un film di culto: da una sceneggiatura minima, inespressiva e poco originale (l’unica nella filmografia di NWR a non essere stata scritta da lui), la regia riflessiva tira fuori un’epica dell’antieroe, un simbolo del protagonista maschile contemporaneo. Coi suoi silenzi impotenti, lo sguardo dolce e la giacca bianca obsoleta, il “Driver” di Ryan Gosling è uomo d’azione dai sentimenti d’oro, psicopatico incapace di trovare la bussola nella normalità, icona anni ’80 in un presente confusionario. Il regista rende perfettamente l’atmosfera del punto di vista di “Driver” trattando il racconto, una storiella da sottotrama di Fast & Furious, come un album di musica d’ambiente, concentrandosi su sguardi e dettagli e dilatando all’infinito il tempo interno delle singole scene e inquadrature. I suoi successivi due film sono i più enigmatici: 1) Solo Dio perdona porta agli estremi l’impotenza tragica del protagonista di Drive mettendo Gosling nel contesto di un turpe sobborgo thailandese a luci rosse, costringendolo a confrontarsi con conflitti edipici, arti marziali e persino, in ultima istanza, con qualcosa che sembra Diavolo in persona – l’approccio del film è “drone” a livelli sproporzionati, ma non si può non considerare che la fotografia, sommersa in un’alternanza tra neri cupissimi e il rosso energico e inquietante dei neon, ha influenzato il look di molto cinema indipendente dell’ultimo decennio. 2) The Neon Demon è più filosofeggiante e astratto, Refn si dà l’esplicita missione di fare un “film bello sulla bellezza” e sceglie come ispirazione Dario Argento, e i cromatismi illogici dei suoi horror e gialli; ne risulta un horror ritualistico affascinante e misterioso ma vago in forma e significato (il finale spietato è ad oggi la sequenza più scioccante della sua filmografia), al punto da aver consacrato l’autore nell’olimpo dei registi che dividono il pubblico appassionato. La successiva miniserie Prime Too old to die young, radicale pulp contemplativo dalla durata fluviale, è probabilmente l’oggetto più difficile nella sua opera sinora, e il suo mondo fumettoso di vendette, nichilismo e penitenza è coacervo di tutto ciò che furono i film precedenti, e fluisce perfettamente in Copenhagen Cowboy – tutto ciò ad alimentare il personaggio ‘artistoide’ di Refn, ormai maschera e parodia consapevole di se stesso.
In secondo luogo, Netflix. Dopo l’espansione verso il cinema, gradualmente aumentata in proporzione negli ultimi anni fino a un apice di successo nel 2021, il successo della piattaforma streaming ha subìto una serie di saliscendi. Dopo il successo planetario della serie coreana Squid Game, un caso pop unico e non replicabile, e l’acquisto dei diritti d’autore sulle intere opere di più scrittori tra i più famosi al mondo (come Roald Dahl e Dr Seuss), Netflix ha perso buona parte del suo valore azionario e milioni di clienti a seguito di affermazioni della compagnia contro la condivisione delle password da parte degli utenti, portando a una drastica serie di licenziamenti che ammontano a circa il 2% degli impiegati a livello internazionale. Persino con l’inspiegabile consenso universale all’ultima stagione di Stranger Things, sembra essere realtà un parziale declino di Netflix come potenza economica nel discorso cinetelevisivo, soprattutto essendo stato soppiantato in numero di iscrizioni da Disney+. Con il monopolio Disney in vetta e quello di Bezos/Amazon in agguato, Netflix continua con la produzione cinematografica e, nonostante la stragrande maggioranza dei suoi prodotti, al momento è forse dei tre servizi streaming quello che si prende più rischi; anche solo quest’edizione del festival di Venezia, tra il narcisismo onirico di Iñárritu in Bardo e la demolizione dei simboli della cultura pop americana di Blonde, ce l’ha dimostrato ampiamente. Ed è soprattutto in quest’ottica che Copenhagen Cowboy acquisisce senso, esplora nuovi territori, e diventa un vero e proprio attacco terroristico all’occhio.
Refn è più che consapevole di come funziona il pubblico dei servizi streaming, e ciò era chiaro già dalla prima internazionale di Too old to die young a Cannes, ove furono proiettati gli episodi 4 e 5 con la motivazione che la serie può essere cominciata da qualsiasi puntata, perché ognuna funziona a sé nonostante la presenza una storia continuativa. La serie Prime fonda in ciò parte della sua efficacia: essendo perlopiù l’estetica, il ritmo, il mondo a trascinare dentro il pubblico che i personaggi, spesso bloccati sempre in azioni simili tra loro, lo stesso contenuto si può reiterare in ogni puntata, ma in modo leggermente diverso, e così si può anche consigliare ai propri amici di cominciare la serie dalla quinta puntata se le prime sono troppo lente, invece di girarci attorno e dire cose come «te la consiglio, ma parte dal quinto episodio in poi». Too old to die young è un film di NWR spalmato e dilatato su una dozzina di ore, come ad affogare lo spettatore in un’ipertrofia della cosmogonia refniana. Copenhagen Cowboy, di durata più modesta, è invece più simile a una serie di film brevi messi in fila, collegati da una protagonista comune e nessi logici minimi, ma puro sfoggio di estetica. I medesimi simbolismi si ripetono sempre: complesso di Edipo, l’impotenza maschile come origine di ogni violenza, lo sguardo pornografico del regista che crea bellezza mentre macella la carne dei personaggi. Il titolo parte da un’assonanza misteriosa e «sexy» (dice il regista), e difatti non v’è alcun cowboy, al centro dell’intreccio bensì c’è un’eroina il cui super-potere è portare fortuna, Miu (come Miuccia Prada), interpretata da Angela Bundalovic, già protagonista di due serie danesi popolari su Netflix; parla poco, è allenata nel combattimento corpo a corpo, e sembra un po’ Bruce Lee e un po’ una giovane Elina Löwensohn. Si aggira come un’extraterrestre per una Copenhagen cupa e industriale ove dietro ogni angolo c’è un pericolo, in una Danimarca abitata pressoché solo da immigrati, dalla megera zingara che vuole appropriarsi dei poteri di Miu, fino alla ristoratrice cinese che le chiede aiuto per riappropriarsi della figlia rapita dalla mafia. In tutta la galleria di personaggi che circondano Miu, a risaltare è Miro, interpretato da Zlatko Buric, che altri non è che Milo, antagonista dei primi due film della trilogia Pusher e protagonista del terzo, qua tornato, invecchiato e col nome cambiato di una lettera, ma sempre lui – e a circondare Miro ci sono alcuni dei suoi sgherri dei film precedenti. Nel ritornare per l’ennesima volta a immergersi in trovate già esplorate e in storie già viste, Refn tratta i propri film come un ‘Cinematic Universe’ à la Marvel in perpetua evoluzione, mischia tutto e trasporta la memorabile protagonista Miu nelle componenti di questo “tutto” come un veicolo camaleontico che porti vita in mezzo alla decadenza.
Oramai appare chiaro come a Refn importino più lo stile e la forma rispetto al contenuto o al significato da trasmettere. In Copenhagen Cowboy padroneggia la panoramica a 360°, alternandone un uso narrativo a uno solo visuale – o a volte prodigandosi in giochi scenografici di ombre e riflessi a effetto ipnotico. I personaggi sono sovente posizionati nello spazio dell’inquadratura come a imitare una pop star in un video musicale o un modello in un fashion movie, la colonna sonora di Cliff Martinez verte più che mai verso la techno, e la palette fotografica abbraccia quasi solo colori agli estremi dello spettro. È una storia che va avanti per immagini iconiche: i piedi di un uomo e una donna in una lotta mortale in un porcile, uno split screen tra tableaux vivants che raccontano una guerra tra bande criminali, un montaggio alternato di dettagli di canne di pistola e persone che muoiono volando coreograficamente verso un sottofondo fumoso, una lotta sotto luci stroboscopiche, Miu che appare formata da eteree scie di luce che tendono verso l’alto, chi più ne ha più ne metta. Sono personaggi-immagine, come in un libro illustrato per bambini. È proprio nei personaggi, Miu su tutti, che si può scorgere una sorta di abbozzo di simbolismo, una lotta tra un Bene femmina ma androgino e un Male maschio e misogino (il “vampiro” nemesi di Miu che si svela alla fine del primo episodio), un mondo basato su un culto fallocratico, valori tradizionali che vengono soppiantati dal caos e dalla violenza, sì; però la forma è sempre tutto. Ma se la forma di Too old to die young era radicale perlopiù per l’esasperazione dei tempi e la consapevolezza di Refn del proprio mondo, in Copenhagen Cowboy sembra più che altro di assistere a un continuo inseguimento tra la trama e lo stile. È difficile da spiegare – storia e forma sono sempre “in accordo”, ma non d’accordo. È un divertissement premeditato al millimetro, anche quando sfora negli eccessi. E ciò si coglie dalla struttura narrativa che si dipana al limite e nel contorno rispetto ai personaggi: un meccanismo di apertura costante con pochissima chiusura, in cui il fine primario sembra il depistaggio, portare lo spettatore dentro a empatizzare e poi portarlo fuori e farlo ricominciare da capo. Da temibili antagonisti che muoiono subito dopo la loro presentazione ad anticlimax della più varia natura, Copenhagen Cowboy è una galleria di immagini decisamente “by #NWR”, ognuna di esse atta a innescare ingranaggi in opposizione tra loro, ad attuare, iconizzare un grottesco plastico, creare una forma che possa appartenere solo a quest’oggetto alieno, invero pseudo-narrativo, analogo a un’approssimazione artificiale del comportamento umano in un noir supereroistico. È postmodernismo autoreferenziale di alto costo e altro livello, gioca fuori da qualsiasi sport in un campo solitario in cui il suo autore ha già vinto. L’intrattenimento streaming prende un nuovo volto. In questo, la costrizione di ‘binge watching’ impostata dalle proiezioni a Venezia ha aiutato a percepirne la natura dispersiva, o meglio, sperduta.
Refn dunque riparte da zero nella sua filmografia e applica questo nuovo sguardo, sempre spiritato e inquieto, in un setting (che lo intendiate come Copenhagen, o come Netflix…) quanto mai adatto a esaltare l’irrealtà delle sue scelte, l’astrazione e il personalismo asettici delle sue sfumature. È da stimare anche il potere che ha NWR sul final cut, che gli invidierebbe persino Lynch nonostante tutte le libertà che si è potuto prendere in Twin Peaks: Il Ritorno. È assurdo e ironico che le due serie fuori concorso al Lido quest’anno fossero Copenhagen Cowboy e Riget: Exodus, perché sono di due registi danesi che si mal sopportano a vicenda (in particolare Refn ha sempre parlato male di Trier) ma soprattutto perché con contesti e scelte registiche completamente opposte giungono a simili conclusioni: l’assoluta conquista del mondo dello schermo da parte della volontà dell’autore, artista genio che si fa beffe del pubblico girando a vuoto evitando un’univocità di pensiero e significato, lasciando così però un’impressione mastodontica di essere stati in un altro universo per 5 ore, in un “altrove” che non esiste e che funziona diversamente rispetto al nostro reale. Se Riget: Exodus tuttavia funziona come lavoro intellettuale sul genere e sulla dialettica della contemporaneità, Copenhagen Cowboy è molto più istintivo, dissennato, fuori dal comune. È una serie del futuro, l’apocalisse della distopia di Netflix, che con un tono pungente e scomodo ‘struttura’ una destrutturazione della serialità. Arrivati all’ultima burla del cameo di Hideo Kojima nel finale, si crea il dubbio (che Refn nelle interviste non fa che alimentare) che sia un cliffhanger che anticipa una seconda stagione o una conclusione secca e sadica a confermare il gioco beffardo delle cinque ore precedenti. Poco importa, perché anche se la serie continuasse, il gioco sarebbe e continuerebbe a essere quello, semplicemente l’impressione si espanderebbe e arriverebbe a includere altre assonanze, altri colori, altre missioni – in un’ennesima simulazione.
Nicola Settis