“Whatever I should be involved in I should be learning something. This was an enormous learning process dealing with my emotions, dealing with other people’s emotions, dealing with structures, requisites, things that contain energy, events or activities which would release energy, and finding out why they do or don’t work. People who are scientists and people who are mathematicians, and people who are called artists, visual artists, musicians, are all working on the same processes. Except that certain areas of activity are predominant within certain categories. The artist has his role in our society that the madman had, that the fool had, that the prophet had …he’s a protected fool. The fool with his bells says foolish, stupid things, but every once in a while he also comes out with the truth. It’s a very dangerous job to be the fool. He’s got to eat at the king’s table and be part of the process. The king really wants him around because all the other people (who are real fools) wouldn’t say what they really meant.”
Bruce Conner, intervista trascritta, 12 agosto 1974
Partiamo dal presupposto che questo non vuole, e non dovrebbe, essere letto come un pezzo sul lavoro di Conner, ne una recensione dell’opera di Lipmann perché in entrambi i casi ci sarebbe bisogno di molto più rigore e passione; questo è solo un tentativo di razionalizzazione di una serie d’appunti di una delle esperienze cinematografiche più interessanti (ed allo stesso tempo stimolanti) dell’anno, vissuta in una sala del vecchio Lantaren Venster (ora ha un altro nome, ma preferisco chiamarlo così) a Rotterdam. In secondo luogo (visto che questa non vuole e non deve essere una recensione) partiamo un attimo però da lui, per chi non lo conoscesse e che infaustamente potrebbe cliccare su questo articolo. Bruce Conner (1933-2008) è stato un artista quantomai poliedrico e geniale – “Penso sempre che il mio approccio (all’arte) sia del diciannovesimo secolo. Non uso niente di quella che chiamano era tecnologica. Non faccio arte elettronica.” così lo stesso Conner, sulla sua pratica pionieristica di lavoro su pellicola – capace di abbozzare come pochi altri nuove traiettorie della scultura come del collage ed ancora del cinema sperimentale, sopratutto quello legato all’archivio ed al montaggio. Un ultimo folle “beat”, forse, lontano dalla moda delle gallerie come dalle distrazioni di una vita dissipata, concentrato costantemente a dare un nuovo senso (ed una nuova vita) ad un oggetto trovato come ad un immagine ritenuta oramai di nessuna utilità, con un atteggiamento sempre dissacrante ed iconoclasta ma allo stesso tempo rigoroso ed intransigente fino ad abbandonare progressivamente il mondo dell’arte per diventare fotografo punk ed avvezzo al bicchiere. Se nel 1958 con A Movie inventò quello che può essere considerata la riflessione moderna sul found-footage (vicino in un certo senso ai maestri sovietici del montaggio), meno di vent’anni dopo in questo Crossroads ne altera le prospettive, le distorce e le sublima, lavorando sulla percezione più pura, tra tagli dinamici e ripetizioni ossessive, lavorando così anche sullo spettatore, sulla possibilità di assorbimento di un linguaggio prima di un immagine.
Partendo da ciò, il restauratore e saggista Ross Lipman, ha voluto condurci all’interno del percorso che lo stesso Conner ha intrapreso per giungere a Crossroads, ampliando la visione del film attraverso una lezione di un’ora, dispersa tra frammenti e materiali, tracce audio e parole. Le riprese (declassificate) riguardano l’Operation Crossroads Baker del 25 luglio 1946 presso l’Atollo di Bikini nel Pacifico, e sono riconducibili a ventitré sequenze. L’evento è stato catturato a scopo di ricerca ed archiviazione da cinquecento telecamere di stanza su aerei senza pilota, velivoli ad alta quota, barche vicino all’esplosione, e da punti più distanti sulla terra intorno all’Atollo. Con tutta probabilità si tratta ancora oggi dell’evento storico ripreso da più telecamere, ed angolazioni, che si sia mai visto. Ottenuto il materiale, Conner si avvalse di due musicisti straordinari, seppur opposti, per il commento audio; da una parte il pioniere elettronico del sintetizzatore Patrick Gleeson e dall’altra il minimalista e spirituale Terry Riley. Dal realismo (visivo e sonoro) della prima parte si scivola verso una scomposizione sempre più astratta dove l’asincronia primaria e reale (differenza tra velocità della luce e del suono) diventa sincrona simulazione percettiva e cinematica, con stacchi improvvisi e sconnessi. All’interno dell’universo e del processo creativo conneriano questo film viene sdoppiato, calibrato nel ripensare non solo a come l’immagine possa esaltar(si) attraverso la violenza. La bellezza automatica di una bomba (ovvero come noi potremmo riuscire ad amare anche essa) non può conoscere direttamente l’esperienza morale che da esse ne scaturisce. In tutto ciò la riflessione di Lipman si inserisce disinnescando il puro senso estetico di Conner, ovvero ripensare a quanto lui fosse maggiormente interessato a come quelle immagini dovessero essere riprese (e quindi esposte) e non tanto al loro fascino puro ed estetico, quasi pop – basti pensare a come siamo abituati a “vedere” la straordinaria sequenza finale di Zabriskie Point, e della sua indipendenza formale ed estetica (anche violenta) rispetto non soltanto al film, ma addirittura a tutto il percorso cinematografico analitico e rigoroso di Antonioni – in cui noi stessi spesso rischiamo di cadere. Partendo da questo processo, a priori, è logico guardare Crossroads come un film prima teorico e poi estetico. Nel processo di sezione ritmica continua dell’esplosione è prima ipnotica e poi ricostruttiva; le parti che si scompongono non guardano più alla violenza, la depotenziano rendendo la visione estremamente fluida e totalmente distaccata dal senso, ovvero il significato dell’immagine oramai è troppo distante dal significante per potergli appartenere.
Lontano da qualsiasi intento didattico ed educativo, un esplosione infine torna ad essere un esplosione, come un film torna ad essere un film, liberato dal concetto e dalla sua estetica, proprio per quello vivo nella sua purezza. Un altra immagine che non nasce direttamente dalla storia, ma contribuisce ad edificarne un altra (pur drammatica che sia, almeno potremmo pensare). Lo spettacolo meditativo della riproducibilità, la latenza sincronica della circolarità di quelle esplosioni e dunque l’effetto sorpresa che svanisce per una comprensione più ritmica del gesto di un attimo, tutti significati che riflettono il fascino latente e surreale di quel materiale d’archivio, ne fa riflessione diretta sulla comprensione di un umanità che si esercita nel gioco dell’autodistruzione. Cogliendo l’occasione del restauro del film (soprattutto della traccia audio, inizialmente mono ed ora stereo, fondamentale per la fruizione della doppia colonna sonora) Lipman scava proprio nel rapporto controverso che Conner aveva nei confronti della società americana, e non solo. Partendo da un lavoro simile, ma su supporto video non dal vivo, su Beckett (Notfilm) l’archivista americano riesce a ripercorre tracce imprevedibili del processo produttivo di Crossroads e dell’intera speculazione conneriana, restituendo al film un originalità ed un attualità forse addirittura agghiacciante. Lontani dalla possibile teoria del cinema e dalle possibilità reali del lavoro di montaggio, cosa resta in chi assiste ad un istallazione del genere (almeno per chi scrive) è un senso di stordimento cognitivo ed estetico imponente, unito ad una precarietà storica quanto esistenziale, ad una percezione di archeologia della guerra oggi più che mai espansa e contemporanea. Dall’effetto trascendente più puro alla standardizzazione della catastrofe, ciò che l’artista simbolo dell’underground di Frisco ci dona è qualcosa di impossibile traslazione su carta e di ancor più complessa lettura. Forse proprio qui sta il senso più stretto dell’opera di Conner, la missione finale e costantemente incerta, quella dell’archeologo di/per immagini, di colui che crea cinema non filmando proprio perché ci sono ancora moltissime tracce da percorrere nella loro più strutturata complessità, e dunque nuove prospettive da tracciare invitando lo spettatore ad avere nuovi occhi per filmati apparentemente consumati. Infatti paradossalmente non si può (e non si dovrebbe) evincere nessun messaggio da film come Crossroads ma solo rielaborare il già visto, ciò che ci porta all’inquietudine ed all’illuminazione, ascoltare le nostre forze interiori e il nostro stomaco (più che la nostra mente), nel tentativo più puro di liberar(ci) dal fantasma di un immagine, dal senso di trauma come di piacere che essa provoca. Ed ecco infine la lezione de/alla lezione, cioè che Lipman probabilmente vuole mostrare è come Conner mostrava la sua arte, costantemente in bilico tra passato e futuro, tra realismo ed astrazione, tra provocazione e rigore. Semi destinati ad una terra sempre più arida ma non per questi destinati all’oblio, come quella frase (“the lilies of the field, how they grow”) annotata sulla copia personale del Nuovo Testamento tenuta in scrivania. Anche nell’apocalisse di un destino atomico, qualcosa sarà sempre pronto a germogliare, è il destino (la vita e il cinema).
Erik Negro