“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.”Giacomo Leopardi, L’infinito
A volte serve un momento di sospensione. A volte serve fermarsi, riflettere, inspirare profondamente, riguardare indietro e riscoprire la memoria, propria o altrui, per potersi interrogare sul presente. Serve capire e capirsi, o quantomeno provarci, vivere l’oggi, l’istante di pausa come unica via verso un orizzonte futuro. Serve fuggire dalle città, sdraiarsi su un prato, ascoltare il vento, giocare con il sole fra le dita, tornare alla natura e alla materia, ritrovare le nostre radici, assaporare intensamente la nostra intima essenza di esseri umani. E del resto, il (Minimal)cinema del giovane regista abruzzese Claudio Romano, in coppia con la sua co-sceneggiatrice, compagna di vita e “parte razionale” Elisabetta ‘Betty’ L’Innocente, ha sempre trasudato una ricerca spasmodica di brandelli di umanità in una realtà ormai spersonalizzante. Dalla serie di cortissimi Human Beings, agrodolci istantanee di frammenti di vita rubate alla realtà di una lacrima, di una risata o di un turno al lavoro, fino all’esordio al lungometraggio con Ananke, scenario post apocalittico nel quale è il non arrendersi nemmeno di fronte all’evidenza – fra una lettera impossibile alla madre, l’intima umanità di una capretta e una radio Senza fine – l’unico modo per sopravvivere, Claudio e Betty vanno da sempre alla ricerca di un respiro umano che sia sinceramente emotivo in un mondo sempre più anaffettivo e indifferente. Il loro è un cinema di attesa e di tempi dilatati, di osservazione e di poetica nell’immagine, di struggimento esistenziale e di resistenza, figlio e mai semplice emulo di un amore viscerale verso Bela Tarr, verso Andrej Tarkovskij, verso Lav Diaz, verso Charlie Chaplin. Un cinema che alle risposte preferisce le domande: quello che conta è riaprire la menti schiacciate dall’asfalto, dilatare gli orizzonti, focalizzarsi sull’hic et nunc. Chi eravamo? Chi siamo? Qual è il nostro ruolo nel mondo? La risposta, forse, è nel vento, soffio di memoria, tempo senza tempo.
Quello di Claudio Romano e Betty L’Innocente è un cinema pienamente autoriale con una ben precisa idea filmica e una genuina ossessione per la centralità dell’uomo, un cinema rigoroso, un cinema di cuore e di talento, un cinema splendidamente radicale e orgogliosamente fuori dalle logiche del mercato ma al contempo dolce, intimo, palpitante. Un cinema mai domo nei suoi guizzi, nei suoi messaggi, nelle sue intuizioni linguistiche, nei suoi cambi di ritmo, nella sua etica granitica. Un cinema di eremiti, di individui forse isolati ma mai soli, mai abbandonati, mai giudicati. Un cinema, quindi, nel quale dopo Ananke non era facile tornare a produrre immagini. Non era facile rientrare da quel mondo isolato e annichilito eppure ancora resistente alla passività imbonita della realtà quotidiana, non era facile tornare dalla grana materica della pellicola 16mm ai pixel dell’immagine digitale, non era facile tornare dal bianco e nero alla saturazione. Serviva, come dichiarato dallo stesso regista sul palco di Piazza del Popolo dove il nuovo cortometraggio Con il vento è stato presentato nella sezione Satellite del Festival di Pesaro, una transizione, un riguardarsi indietro, una rielaborazione di immagini precedenti. Ed ecco quindi riemergere dal computer del regista i provini per Ananke, la fisicità e i volti penetranti e ombrosi di Solidea Ruggiero e Marco Casolino, il degrado delle città e la sincerità della natura; ecco la folgorante scoperta dei vecchi super8 gelosamente conservati dalla famiglia L’Innocente: il ricordo che diventa futuro, la tensione forse inconsapevole verso l’infinito di quelle vecchie immagini, i bambini che sono diventati adulti, ieri e oggi, mai più soli.
Con il vento è tempo che passa e memoria. È l’apertura su case scrostate, su vecchie grondaie, su serrande abbassate, sulla giungla d’asfalto annichilente, sulle grate, sull’abbandono. Bisogna tornare dove soffia il vento, fargli smuovere il vortice dei ricordi. Con il vento è un corpo che respira, pensa, vive, si rilassa, si (ri)alza consapevole (anche) delle sue inconsapevolezze. Con il vento è la natura dei boschi e delle montagne, è lo scorrere placido del rivo, è l’incresparsi delle acque sulle rocce, è lo stormire degli uccellini fra le fratte, è il vento, appunto, che accarezza dolcemente i pini, li modella, come volesse trasportarli in un mondo altro. Con il vento è una persona al proprio fianco con cui ripartire. Il cortometraggio di Claudio Romano è il degrado della civiltà contrapposto alla sincerità della natura, è una riappropriazione della dignità e della purezza da parte dell’uomo, è la solitudine che viene sconfitta dal ricordo e da un sentimento magari straniato, magari dilaniato, ma sempre vivo e tangibile, caldo e crepitante, che sappia leopardianamente comparare quello infinito silenzio a questa voce, fino al sovvenire dell’eterno. Un eterno che non sappiamo quale possa essere, mentre le due figure, finalmente consapevoli del proprio passato e della propria bruciante umanità nel presente, si allontanano verso i Tempi Moderni dell’orizzonte. Quello che conta è ripartire, oggi, ora, magari verso l’ignoto, ma nuovamente persone, uomini, individui, esseri viventi e non numeri nella società. Con il vento è il prato, è il sole, è il ritrovare contatto con ciò che abbiamo ereditato dall’eterno e che stiamo distruggendo, è il riappropriarci del nostro vissuto, è nutrirci della memoria, è lo sguardo indietro dal quale far partire il passo in avanti, oltre la collina, insieme. In meno di nove minuti privi di dialoghi, fra un indiscutibile talento visivo e un minuzioso lavoro su un audio che sappia cullare lo spettatore nei contrasti e nelle (in)consapevolezze messe in scena in un film nato sul tavolo di montaggio, Con il vento segna una nuova e fondamentale tappa per il cinema della coppia di autori, una nuova presa di coscienza, un trampolino verso nuovi e nuovamente sfavillanti lavori. Perché dello sguardo al contempo austero e affettuoso di Claudio Romano e Betty L’Innocente, nel cinema non solo italiano, c’è un grandissimo bisogno. E da parte nostra, ce lo teniamo stretto.
Marco Romagna