Robin Hood ruba ai ricchi per dare ai poveri. Bandito gentiluomo dalla parte del Popolo, oppresso che aiuta degli oppressi, ma anche sincero amico e compagno di scorribande per Little John e tenero amore proibito dell’altolocata Lady Marian. In questo senso -e al netto di furti e rapine- anche Comoara (titolo internazionale The Treasure, il tesoro) può essere letto come una sorta di fiaba popolare e proletaria, protesa verso una giustizia sociale di riscatto ed equità. Il nuovo lavoro del brillante regista romeno Corneliu Porumboiu, presentato al Torino Film Festival dopo la passerella cannense in Un Certain Regard, si rivela un film dolce e sognante, ennesimo tassello nella filmografia di un Autore che, una conferma dopo l’altra, ha ormai smesso da tempo di essere una sorpresa. Costi è un comune impiegato nella grigia Bucarest, poche centinaia d’euro in tasca, le rate da pagare della casa e dell’automobile, un pargoletto da crescere e al quale raccontare le favole in istanti filmici di sincera e sublime tenerezza. Un giorno bussa alla porta il vicino di casa, quasi nullatenente, moroso con la banca e prossimo allo sfratto. Gli parla di un tesoro interrato subito prima dell’avvento del sanguinoso regime di Ceauşescu, proponendogli di cercarlo e dividerlo: gli averi dei suoi facoltosi avi aspettano nel giardino della casa di campagna, e serve solo un metal detector, il cui noleggio è però costoso, per localizzarli.
Dopo aver compiuto la lucida e sognante riflessione (non solo) sul cinema di When Evening Falls on Bucharest or Metabolism (2013) ed essersi messo a nudo nel proprio rapporto padre-figlio attraverso The Second Game (magnifico film del 2014 nel quale il regista rivede e commenta con il padre che fu arbitro della partita, passando dal calcio ai massimi sistemi del mondo, un derby Dinamo-Steaua innevato dell’88), Porumboiu torna al film più smaccatamente politico e ancorato alla realtà economica di un Paese in difficoltà, scegliendo di stare dalla parte del Popolo e di affezionarsi ai propri personaggi. Comoara è un ardente film proletario, nel quale si parla di eurozona, di crisi, di povertà, di leggi inique, di mercati azionari, di lavoro in nero, ma anche del legittimo sogno di una vita migliore. Quello che Porumboiu mette in scena non è un tesoro dei pirati, né dobloni né casse di rum: ciò che i protagonisti cercano di disseppellire – fra sardoniche gag a tratti irresistibili e momenti di umanissima debolezza – è in realtà il loro stesso riscatto, la loro stessa rispettabilità, la loro stessa vita. A un certo punto, infatti, non è neanche più lo scrigno in sé a interessare i protagonisti: madidi di sudore e stanchi, quando la notte ha ormai obnubilato il sole e la terra sembra portare solo altra terra, si scava ancora perché è giusto farlo, per la voglia di non arrendersi, per alimentare il sogno e la speranza, per vivere fino in fondo l’avventura.
Con la rigorosa ieraticità frontale che è ormai cifra stilistica del regista romeno, le inquadrature dal portabagagli verso l’abitacolo e l’utilizzo di più o meno lunghi pianisequenza in grado di asciugare il lungometraggio di qualsiasi orpello o inutile fronzolo, il film di Porumboiu fa della sottrazione la propria arma per combattere contro l’ingiustizia al fianco di un popolo affamato dalla crisi economica, dalle politiche statali asfissianti, dalle intromissioni straniere. Quello che il metal detector scandaglia non sono tanto i cumuli di terreno e la miriade di residui metallici, ferrosi o meno, segnalati sotto al prato, ma piuttosto i mutui bancari, i beni storici appartenenti allo stato, le leggi inique che regolamentano i ritrovamenti in Romania, il figlioletto vittima di bullismo, lo scetticismo verso un’impresa folle e fiabesca e al contempo la necessità intima e ancestrale di compierla. Fino al vero e proprio colpo di genio cinematografico finale, le azioni Mercedes, i bimbi che giocano, lo scrigno, il dono, lo sguardo ad un nuovo e splendente Sol dell’Avvenire: Life is Live. Fra la commedia dell’equivoco e il film d’avventura, intrisa di un’ironia surreale e di situazioni di beckettiana memoria, la narrazione scorre lineare e fluida per parlare di un Paese ancora alle prese, dopo quasi 30 anni, con i fantasmi di un passato, con le scorie di un periodo buio, con la normalità che diventa un’impresa. Ma rimane, calda come una coperta avvolgente, la speranza. La speranza di poter continuare a migliorarsi, sognare, crescere, vivere. Quello di Corneliu Porumboiu è un cinema originale, fresco e ancestrale. Un cinema, soprattutto, profondamente sincero. Un cinema di cuore, umile, capace di dissimulare la propria ambizione senza mai sconfessarla. Un cinema che, in definitiva, non possiamo fare a meno di amare.
Marco Romagna