COME LE FOGLIE AL VENTO (1956), di Douglas Sirk
A volte il destino è scritto nel vento, e gli uomini non potessero farci nulla, sballottati di qua e di là come foglie fra sentimenti contrastanti e incompatibilità sopraggiunte. È il vento a decidere per loro, imprevedibile come il destino, ora fermo nella sua bonaccia, ora dolce nelle sue brezze, ora impetuoso e distruttivo nelle sue folate più sadiche, quelle che portano due migliori amici a innamorarsi perdutamente della stessa donna, quelle che porteranno a distruggere quell’amore in un dramma di ingiusta e tragica gelosia. Comincia con un drammatico ritorno a casa Come le foglie al vento, fra i capolavori dell’indiscusso maestro del melodramma Douglas Sirk. Comincia con un vento di tempesta, con un vento che sembra già preannunciare la tragedia, con gli sguardi attoniti alle finestre di chi è già in casa in attesa del precipitare degli eventi, ma non è ancora il tempo della resa dei conti: è tempo che il calendario scorra all’indietro, anch’esso come trascinato dal vento, tornando al principio della storia.
Sin dall’incipit sul quale scorrono i titoli di testa, Come le foglie al vento si impone come un manuale quasi inarrivabile di messa in scena, fatto della saturazione profonda del Technicolor anni Cinquanta e di movimenti di macchina di straordinaria classe a entrare dalle finestre oppure a mostrare pistole, fatto di riflessi sugli specchi e di figure che escono dagli sfondati oscuri, fatto di capelli biondi e di labbra rosse, fatto di auto sportive e di aerei in volo verso Miami, fatto di continue allusioni sessuali fra trivelle al lavoro e modellini da tenere fra le mani, fatto di audaci quanto strepitosamente moderni raccordi di montaggio sulla drammatica e definitiva caduta dalle scale di un padre che ha fallito la sua missione di genitore e si lascia andare al crepacuore. Come le foglie al vento è, al pari di Secondo amore, Magnifica ossessione, Lo specchio della vita e Tempo di vivere, la quintessenza del cinema di Douglas Sirk, l’apice del grande melodramma americano. Sullo schermo scorrono i sentimenti contrastanti di due amici da sempre cresciuti come fratelli, e ora insidiati nel loro rapporto da un destino beffardo, inconcepibile, imprevedibile come il roteare delle foglie al vento.
Tutto inizia quando Mitch Wayne (Rock Hudson), serio e onesto proprio come il magnate del petrolio Jasper Hadley avrebbe voluto fosse il proprio figlio, incontra Lucy Moore (Lauren Bacall), e la porta a cena insieme al “vero” figlio del magnate Kyle (Robert Stack), dissoluto e depresso, tormentato e tendente all’alcolismo, debole e viziato dai troppi soldi. Fra i due pretendenti, la spunterà proprio Kyle, ma Mitch mai riuscirà a dimenticare il suo amore per Lucy, solo a reprimerlo, per rispetto e sentimento di amicizia sincera. Fra loro, come una variabile impazzita, si frappone la sorella di Kyle, Marylee (Dorothy Malone), da sempre innamorata di Mitch, mai ricambiata se non “come una sorella” e dai costumi piuttosto libertini prima che i tempi fossero maturi per il cambio della morale. Sarà lei, come una serpe, a instillare il sospetto in Kyle proprio come Iago montò l’ingiusta ira di Otello contro Desdemona, ma rispetto alla tragedia shakesperiana, pur in dinamiche paragonabili d’amore e tradimento, Come le foglie al vento scarta nella vittima della tragedia finale, non più Desdemona/Lucy ma proprio Otello/Kyle, e sarà solo il rimorso tardivo di Marylee a riportare, almeno in tribunale, un minimo di verità e di giustizia in questa storia di vittime del destino, di deboli, di depressi, di sconfitti.
È una trama semplice, quella di Come le foglie al vento, eppure magnetica, fortemente emotiva e non di rado seducente nelle interpretazioni degli attori, nella sontuosa messa in scena di Sirk, nell’abisso dei blu, dei gialli, delle bottiglie che, fra la morte del padre e il timore di essere sterile che lo tormenta, Kyle ricomincerà ben presto a svuotare, tanto da essere troppo ubriaco per riuscire a parlare dei suoi problemi con la moglie e l’amico, tanto da essere troppo ubriaco per credere alla sincerità e alla fedeltà di Lucy quando gli comunicherà di essere incinta, tanto da provocare l’aborto spontaneo di quell’erede (im)possibile che così fortemente era diventato la sua ossessione. Proprio nel giorno in cui Mitch era riuscito a prendere il coraggio a due mani e a confessare apertamente all’amata e moglie del migliore amico i propri sentimenti e la propria intenzione di andare via, in Iran, lontano dagli strazi del suo cuore sanguinante.
Come le foglie al vento procede per accostamenti poetici, per montaggi alternati, per conflitti fra i personaggi, per passioni divoranti, per la grande casa paterna come centro dell’azione, per emotività esacerbate e debordanti, per specchi che ribaltano la gestione degli spazi, per mulinelli di foglie al vento, per flipper e per cavalli delle giostre, per pistole e per colluttazioni. È un film d’amore e amicizia, di torbidi desideri e di frustrate rinunce, di fedeltà e di rispetto, di vizi e di ipocrisie, di minacce e di amarezza, di perfidia e di pentimenti. Di vero e puro spirito popolare, lo stesso omaggiato da Todd Haynes in Far from heaven e in Carol con l’aggiunta di un’accurata ricostruzione storica che in Sirk era invece un netto sguardo sulla contemporaneità e sui suoi cambiamenti nei costumi; lo stesso che ha ripreso in sostanza personaggi e linee di trama di Come le foglie al vento per trasformarle nella soap opera Dallas che condizionò l’intero immaginario (non solo) statunitense nel corso degli anni Ottanta.
È importante continuare a vedere i film di Douglas Sirk. Perché sono la testimonianza diretta di un periodo storico visto con gli occhi e con il cuore di chi lo stava vivendo, perché sono un thé preso in quei salotti, sono una corsa su quelle strade, sono una sortita in quegli anni, in quegli abiti, in quella morale che si stava ammorbidendo, in quella mentalità, in quell’emancipazione femminile che stava lavorando ai fianchi pochi anni prima di esplodere nella rivoluzione sessuale. Così come sono una sempre sublime immersione nei sentieri del cinema, nella capacità di far scattare l’identificazione, nella capacità di far appassionare, gioire e soffrire insieme ai protagonisti, nell’eleganza di un’inquadratura, nella nettezza tranciante delle tonalità del Technicolor del tempo. E merita sicuramente un plauso il Cinema Ritrovato, che procede nella sua trentunesima edizione il lavoro iniziato negli scorsi anni sul colore al cinema proiettando stampe d’epoca, ancora in triacetato, rischiose da mettere in macchina a causa della perdita di elasticità dell’emulsione, orgogliose nei loro segni del tempo, nelle loro giunte dove manca qualche fotogramma, nei segni della polvere, nelle piccole righe che, specialmente sul primo rullo, accompagnano magnificamente l’immagine come se fossero una presenza fantasmatica del Cinema stesso che torna a guardarsi. Sullo schermo dell’Arlecchino di Bologna è passata una copia bellissima nelle sue imperfezioni, una copia in un certo senso viva, una copia che trasuda Cinema alla massima potenza. Già, Cinema. Che poi è come dire Douglas Sirk.
Marco Romagna