COMA (2022), di Bertrand Bonello
Forse basterebbero le due commoventi lettere iniziali e finali scritte sullo schermo da Bertrand Bonello alla figlia Anna, per fugare ogni possibile perplessità sul suo nuovo Coma. Non una semplice dedica, come già fatto sette anni fa in apertura di Nocturama, ma il più accorato tentativo di un padre cineasta di esorcizzare le inquietudini più profonde di una figlia diciottennene bloccata all’improvviso dal lockdown e dal coprifuoco, calando l’occhio della macchina da presa all’altezza delle sue paranoie in un trauma collettivo ma soprattutto – specialmente in quella che dovrebbe essere l’età in cui iniziare a spiccare il volo – personale. È per lei che il film esiste, per infonderle coraggio e speranza nel futuro, per rassicurarla sul tanto tempo che avrà ancora tutto da vivere, per prometterle che potrà recuperare e finalmente sfogare tutta quell’esplosività giovanile ora forzatamente repressa nell’isolamento di una stanza. Per dimostrarle ancora una volta, ripensando il cinema nei giorni di totale blocco e di massima incertezza, l’amore assoluto e totalizzante di un padre che si immerge a capofitto nelle sue fragilità psicologiche giovanili, private da un giorno all’altro della sfera della socialità, per cercare di capirla, per tenderle ancora una volta la propria mano, per scortarla dolcemente fuori dal suo incubo a occhi aperti, «una pausa del presente che lascia solo passato e futuro», con le parole e con le immagini di una lettera aperta a lei e a tutta la sua generazione, e poi con una messa in scena che tenta di guardare il suo piccolo mondo attraverso i suoi occhi e la sua immaginazione. Come se la creatività – del cinema, nel quale Bonello dice apertamente che non bisogna mai smettere di credere – fosse l’unico possibile argine alla frustrazione di un mondo confinato e insoddisfacente, l’unico modo per affermare realmente se stessi nel grigiore orwelliano della distanza sociale, l’unica via per riuscire a sopravvivere alla contingenza senza cedere alla disperazione. Una dichiarazione, teorica e programmatica ma soprattutto emotiva, umana, universale e dolorosissima, di fronte alla quale poco importa come sia forse possibile trovare lungo lo scorrere di Coma, presentato fra gli Encounters della 72ma Berlinale e dopo un anno e mezzo programmato come evento in uscita in Italia con Wanted per il 10-11-12 luglio 2023, qualche ripetitività di concetti espressi appieno già nei primissimi minuti, o come forse non proprio tutte le parti in cui il film frammenta il flusso di pensiero ininterrotto della protagonista (anche stilisticamente, con continui cambi di formato dal panoramico 3:1 fino al verticale del cellulare, pupazzi che dialogano nella loro fissità e audaci soggettive di vertigini oniriche lynchane, schermi negli schermi magari a loro volta splittati in multiconversazioni live, filmati d’archivio e falsi vlog online, improvvise stop motion e fotogrammi ricalcati al rotoscopio in cui vedere se stessi e il proprio ambiente come un cartone animato) risultino perfettamente legate e concluse. Anzi, è esattamente all’opposto fondamentale che non lo siano, per perdersi nell’irrisolto necessariamente caotico di una (con)temporanea sconfitta sociale che, ancor più nella sostanziale negazione dei diciott’anni, sembra tanto lunga e inscalfibile da diventare infinita.
Chiunque di noi del resto ricorda alla perfezione, indipendentemente dalla sua età, i giorni tappati in casa della prima ondata epidemica, la noia esistenziale più devastante e la sensazione di impazzire fra quelle quattro mura, l’immaginazione che si fa pura ossessione e il terrore ancestrale di non uscirne. Tanto che a Coma non serve nemmeno nominarlo, il Covid. Basta e avanza metterlo in scena in una stanza, in un turbine di emozioni contrastanti, in un improbabile canale YouTube da guardare ossessivamente, in una videochiamata da sole o di gruppo su Zoom, in un braccio infilato a fondo nel frullatore, in un cinema deserto e in un ristorante chiuso che si fanno controcampi della solitudine della protagonista, nel suo rischioso giocare col coltello senza trovare il coraggio di tagliarsi davvero la mano, o forse nella sua disperata danza solitaria sulL’immensità di Andrea Laszlo De Simone. Di certo nelle bambole da sempre sue compagne di stanza, in cui immaginare (magari proprio con le voci di Louis Garrel, Laetitia Casta e Gaspard Ulliel tragicamente scomparso il mese scorso a soli 37 anni) una soap opera di ripetuti tradimenti e di non-risposte con cui il Ken fedifrago seriale svia i discorsi scomodi delle sue Barbie citando i comizi di Trump, per traslare almeno sulla loro plastica un bisogno sempre più disperato di contatti antropomorfi. Fino ai brandelli che continuano a inseguirsi di un ipnotico sogno in effetto notte, che sospende e blocca il presente nello stato intermedio di una foresta incubale senza entrata né uscita fatta di grida, di volti e di ricordi lontani, nella quale ripensare la propria vita in un limbo fra il passato e il futuro, fra la vita e la morte, fra la realtà e l’immaginazione, fra la luce del giorno e l’oscurità della notte. Del resto non conta (più) ciò che è reale, nella sospensione di Coma. Conta anzi, esattamente all’opposto, saper mentire a se stessi, immaginare per sopravvivere, lasciar correre i pensieri per non lasciarsene sopraffare. Conta lasciare progressivamente diventare la misteriosa influencer web Patricia Coma la propria unica possibile interlocutrice, conta la socialità per lo meno surrogata dei meeting online con cui appassionarsi insieme ai serial killer al punto di vedere – poco importa se sia vero oppure no – una delle amiche aggredita alle spalle durante la conversazione. Conta portare fino al consapevole eccesso il senso di spaesamento e di allucinata rassegnazione di chi, nel fiore degli anni, si è vista all’improvviso strappare via il libero arbitrio, e ora se ne rende conto fra le telecamere di sorveglianza che la scortano negli unici pochi minuti fuori casa e il suo non riuscire mai a sbagliare, nemmeno bendata, la sequenza di tasti colorati di quel metaforico gioco rivelatore elettronico che non certo per caso può smettere di funzionare solo uscendo dalla realtà, in quella foresta zona franca di sospensione e sogno dove non esistono omologazioni sociali ma solo pura emozione. È tutto una semplice questione di sopravvivenza, in questo piccolo diario di quotidiano delirio pandemico che riflette, teorizza e sperimenta sul momento storico, su un’età ben precisa di cambiamento personale e sulle infinite potenzialità della settima arte, dei suoi linguaggi, della sua capacità di continuare a sognare nonostante tutto, continuando a immaginare un domani. Non si può prescindere dalla «produzione» di continue creazioni, dall’esplorare ogni possibilità con la fantasia, dalla libera (re)invenzione del proprio quotidiano e del proprio cinema, che sia quello che illumina gli schermi o quello personale di ogni istante di astrazione, di autodifesa ed emancipazione in immagini e finzioni, di ripensamento del vero nel falso o viceversa del falso nel vero. L’unico modo per ripartire più forti e puri verso la nuova vita adulta, verso un nuovo giorno finalmente di nuovo normale, verso una nuova storia ancora tutta da scrivere. Basta non smettere mai di immaginarsela.
Marco Romagna