COLOR-BLIND (2019), di Ben Russell
Nell’ambiente cinematografico e festivaliero contemporaneo sta avendo particolare successo il fenomeno del film etnografico; è un sottogenere del documentario, già messo in atto dal Flaherty di Nanook ma popolarizzato probabilmente da Jean Rouch con la sua applicazione tecnica innovativa nei confronti dell’uso delle rivoluzionarie e più leggere cineprese 16mm. Dunque è stato inevitabile che l’arrivo del digitale abbia reso sempre più facile creare film basati sulla pura testimonianza: nel momento in cui c’è qualcuno da filmare, è ormai immediata la possibilità di catturarne l’immagine. C’è chi fallisce nell’applicare lo sguardo corretto, volontariamente o no, c’è chi si ritrova nell’impersonalità funzionale del cinema diretto e chi necessita una parte di finzione – in tutto e per tutto, il documentario è uno dei generi in cui è più interessante spaziare, nelle condizioni attuali dell’audiovisivo. Locarno ce lo ricorda ogni anno, proponendoci una struttura di immaginario documentaristico che pare una ragnatela, regie e concezioni diverse contro soggetti diversi, popoli e storie diverse. Ben Russell è un autore che seguiamo da un po’, un documentarista d’approccio etnografico che, esclusa la collaborazione con Ben Rivers A spell to ward off the darkness (2013), che rimane forse l’apice delle carriere di entrambi, abbiamo sempre visto più a suo agio con le durate corte (v. Let us persevere in what we have resolved before we forget, 2013) che con quelle lunghe (v. Good Luck, in concorso a Locarno nel 2017). Color-blind pare un’autogiustificazione rispetto al lavoro fatto con Good Luck, un documento potenzialmente impressionante ma prolisso nel suo concentrarsi eccessivo sull’estetica: avevamo avuto l’impressione di un regista che vive l’atto di ripresa del reale con un distacco innaturale, quello di un pittore troppo distaccato e non quello di un cantore della società. Color-blind sembra tornare sugli stessi passi, ridiscutere quella stessa concezione e lavorarci su con maggiore consapevolezza del mezzo.
È inevitabile, nel momento in cui un filone elitario e chiuso come quello del cinema etnografico, che si comincino a denotare i limiti delle possibilità dello sguardo. Alcune opere viste nel festival di Locarno 2019 ci hanno illustrato il mondo con un approccio diretto, freddo, in cui non sono assenti le potenzialità di un’immersione o di un’immedesimazione ma nel contempo il film non collima con la testimonianza: finiscono per essere due cose separate, che non si alimentano a vicenda, nella visione a volte vince un aspetto e a volte l’altro. Può essere un documento senza portare con sé l’idea di film, l’idea di ‘moving ahead’ dello sguardo, un’esplosione, una rivoluzione – che non giunge perché regna ovunque la confusione, e la novità è un baluardo irraggiungibile. Non esiste ancora una resistenza, un movimento che può creare cambiamento o una scena davvero sperimentale in questo disordine in cui tutto è già visto; perciò il puro documento, che mostra il reale o ne crea l’illusione ideale, è la via più semplice. Ben Russell non sarà il genio che salverà il cinema, ma in Color-blind è riuscito a fare qualcosa di raro e giusto, tornare alle origini dell’idea di sguardo etnografico, scavare realmente nel proprio sguardo per comprenderne la motivazione e il punto d’arrivo e in ultima istanza rappresentare il mondo con questo sguardo finalmente comprensibile. Good Luck attuava questa presa di coscienza ma senza addentrarvisi… ammetteva l’importanza dell’estetica senza abbandonarsi a essa, anzi perseverando nel preferire l’atto del filmare all’importanza di ciò che è filmato. Color-blind è prima più sfacciato, poi più onesto, e infine più umano. Parte dallo sguardo etnografico e iconografico per antonomasia, il post-impressionismo di Gauguin, con la lotta contro le diramazioni razziste dell’evoluzionismo e la necessità di rappresentazione, inquadra i dettagli dei suoi quadri, mostra le sue descrizioni, vive le sue visioni. Russell è un po’ troppo un esteta ma l’idea di cinema proposta funziona in modo interconnesso a come l’immagine è gestita; conscio di ciò Russell fa il regista-artista, non piega la realtà a un volere ideologico ma propone un bivio, più o meno come avrebbe potuto fare Gauguin: ogni spettatore è diverso, c’è chi guarda il quadro come forme e colori e c’è chi guarda il quadro, appunto, come un estratto della Storia, un racconto diretto, un attestato di una realtà che necessita rappresentazione. È certo che il cinema è diverso dal dipinto, ma è vero anche che l’approccio alla descrizione empirica di un qualcosa di reale di Gauguin è completamente diverso da quello che caratterizzava, per esempio, Giovanni Fattori e i Macchiaioli all’incirca negli stessi anni.
Si diceva che Gauguin fosse daltonico, e da qui il titolo del corto. Russell, quando si sposta dai quadri, va direttamente negli stessi spazi e sugli stessi volti dell’artista francese. È un tributo alla sua visione “daltonica” più che un tentativo di compiersi dell’ambizione di continuare la stessa ricerca, lo stesso sguardo. Il regista prima usa la fotogenia di ciò che inquadra per dare pennellate descrittive, poi dalla vista si sposta verso la parola. Il suo disegno di Tahiti descrive quindi un costrutto cognitivo. I polinesiani si raccontano con una libera espressione di idee in ordine confuso, dalle quali il film riparte da zero con un montaggio ritmato, quasi videoclipparo, di altri riquadri impressionisti. È un pensiero un po’ confuso, quello del regista, ma certamente è un pensiero che si pone alla base di una costruzione cinematografica sensata, non un’appropriazione immorale gratuita né un pretenzioso «questa è la realtà dei fatti», ma un gioco linguistico in parallelo, che già richiama un altro tipo di progetto rispetto all’unidirezionalità fredda e boriosa di buona parte di questo cinema. L’approccio dell’esteta non acceca la Storia bensì ribalta lo spettatore, lo sorprende e lo suggestiona. Il pubblico è informato su balli rituali e test atomici e nel contempo è cullato da un’orgia di colori. Il problema forse è che è difficile conciliare questo metodo filmico con la missione educativa del documentarista, e nel caso di Russell sarebbe anche difficile immaginare l’espansione di quest’opera o di questo discorso su una durata da lungometraggio. Dunque, in conclusione, Color-blind offre uno scorcio affascinante, anche se sembra solo un suggerimento per le potenzialità in divenire sia del suo sottogenere sia del suo autore – immaginando che prima o poi il nostro daltonismo sul mondo diventi una visione completa, onesta, vera e complessa, con una nuova metodologia, e una sperimentazione che non renda i nostri cervelli ciechi rispetto al mondo ma (e pare un’utopia) eternamente vigili.
Nicola Settis