COLD WAR (2018), di Paweł Pawlikowski
I destini della Polonia, della sua storia e dei suoi individui. I destini di un intero mondo, che dal particolare della storia nazionale si allarga a indagare le auspicate ricerche di felicità secondo modelli antitetici. Dal 1945 il mondo si è confrontato sulla proposta di due contrapposti modelli umani, capitalismo e socialismo, che, come sembra voler sottolineare Pawel Pawlikoswki nel suo nuovo Zimna Wojna (titolo internazionale Cold war) in concorso al Festival di Cannes 2018, si sono proiettati su un panorama astratto di felicità decisamente poco interessato, in ultima analisi, alla felicità dell’individuo stesso. Bene o male entrambi i modelli proponevano una promessa, sulla base della quale l’uomo deve ridursi a strumento collettivo in attesa che il futuro, grazie al contributo di tutti, si traduca in realtà. Cogliendo l’occasione narrativa dei destini amorosi, esistenziali e professionali di due artisti polacchi dal dopoguerra in poi, Zimna Wojna esordisce con un’intelligente apertura dove si lascia posto all’arte folklorica, espressione più o meno diretta del popolo, della quale in qualche modo il film segue l’evoluzione nel corso degli anni. In sostanza, per i nuovi sistemi politico-economici si tratta di incanalare e rendere significanti forme espressive fino a quel momento non ideologizzate e del tutto autosufficienti. Si deve rileggere ogni componente dell’attività umana secondo un modello di costruzione collettiva, tutto deve soggiacere a un progetto e tramutarsi in momento di partecipazione all’edificazione del futuro. Con grande intelligenza Pawlikowski segue così l’evoluzione dell’arte popolare che da spontanea si tramuta in vessillo ideologico, e che per estremo paradosso da folklorica si traduce in borghese. Quasi a voler sottolineare il tragico scacco di qualsiasi rivoluzione nel momento in cui s’incontra con la realtà della progettazione, Pawlikowski registra secondo un’azzeccata scansione temporale le tappe di un sostanziale irrigidimento delle forme espressive. Pure gli artisti di professione si trovano inevitabilmente proiettati negli attacchi alla loro indipendenza, colti al tragico bivio tra testimonianza delle masse ed educazione delle masse, testando anche il difficile nodo degli steccati culturali (considerare le masse non pronte a messaggi ideologici veicolati dall’arte è guardarle dall’alto in basso? E, d’altro canto, sommergerle di messaggi propugnati in modo proditorio non si delinea forse come una sostanziale plasmazione forzata di coscienze?).
È l’eterno tema dei rapporti tra arte e potere a tenere banco, e dell’inevitabile scacco in cui l’arte si trova quando costretta a tradursi in strumento di altro. Se al centro di Zimna Wojna (titolo fortemente significativo, una Guerra Fredda storica che tuttavia è riportata alla sua dimensione culturale) si colloca una vicenda di melodramma privato, scandito senza eccessive enfasi in capitoli distanti nel tempo uno dall’altro, si resta tuttavia con l’impressione che senso e pregi del film restino invece in una più ampia riflessione srotolata nella “profondità di campo”, visiva e sonora, e più in generale nel vasto quadro del racconto di mutamenti culturali. Basti pensare al tappeto sonoro, sia nel repertorio musicale della protagonista Zula sia nei generi intradiegetici che si odono a commento, in cui Pawlikowski sembra ripercorrere con estrema sintesi espressiva i panorami mediali e culturali in mutamento al di qua e al di là della cortina di ferro – a un certo punto risuona anche 24mila baci di Adriano Celentano. Sembra di assistere a una vera e propria evoluzione del gusto, colta in fieri, che si delinea come causa ed effetto di mutamenti antropologici. A poco a poco Zimna Wojna compone l’affresco di un’effettiva costruzione della cultura popolare di massa, che se da un lato cerca affannosamente “dal basso” spazi di libertà e indipendenza espressiva (il jazz, in questo, sta in una posizione mediana, al di là e al di qua del mercato e del sistema) dall’altro subisce costanti e ben determinate influenze dall’alto, in un generale assopimento delle coscienze a prescindere dalla collocazione in un blocco politico internazionale o l’altro. I peregrinaggi dei due protagonisti, che si rincorrono per anni in tutta Europa alla ricerca di un impossibile equilibrio, stanno lì a dimostrarlo. Quel mondo costruito per la felicità di tutti è incapace di dare risposte, senso di appartenenza, stabilità, in una parola libertà. Libertà intesa come adesione volontaria e spontanea a un progetto morale, ossia la manifestazione della bellezza.
Dedicando il film ai propri genitori, di cui nella coppia protagonista sono in realtà poco più che adombrate le vere vicende di vita, Pawel Pawlikowski, come già accaduto in passato, sceglie un formato che si approssima al 4/3, lavorando molto su una confezione scopertamente elegante e ricercata, dall’uso del bianco e nero alle scelte di messa in quadro. Resta sempre, va detto, anche il sospetto di un alto accademismo europeo, quantomeno sul piano visivo e formale dell’opera. Ma d’altra parte la riflessione culturale alla quale il film si apre generosamente dimostra una più che apprezzabile intelligenza autoriale, che sa anche trovare i tempi giusti e la necessaria economia espressiva (la durata complessiva del film non supera i 90 minuti, evento raro e quanto mai gradito in questa Cannes). Zimna Wojna si configura infatti come un film realizzato col cuore e con la mente, capace di sollevare fondamentali quesiti sulla tragedia della cultura e dell’uomo. Sulle orme di canti e balli, che in un attimo possono trasformarsi in coreografie staliniane, e poco dopo trovare forme mediate nel facile e quotidiano consumo del modello occidentale. A prevalere sempre, in ogni dove, è il pensiero conformista, l’adesione a un progetto, forme diverse di borghesia accomodata nelle sue certezze. Per l’individuo, così, resta la tragica constatazione della sua impotenza e fragilità. Stritolato, nel mezzo.
Massimiliano Schiavoni