L’inguaribile anarchico Fabrizio De André, a ogni presentazione de La buona novella, sosteneva che “Dio, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo, il che è esattamente ciò che ha fatto l’uomo da quando ha messo piede sul questo pianeta”. Perché la religione, per l’uomo, è un’intima necessità, è un modo per sentirsi meno soli, meno piccoli, meno impotenti di fronte agli eventi del mondo e al proprio nebuloso destino. La religione è una tradizione, è un’educazione alla quale si è liberi di credere oppure no, ma non può che essere, nelle sue varie declinazioni e nelle varie zone del mondo, una parte fondamentale della cultura. Eppure nulla, specialmente quando assurge a fanatismo, può diventare pericoloso come la religione, e qui rientra in gioco un’altra voce illustre, quella di Karl Marx impegnato sin dal Manifesto a ricordare che “La religione è l’oppio dei Popoli”. L’oppio: un qualcosa che obnubila e che fa commettere tragici errori, un qualcosa che illude nelle sue scorciatoie per la felicità, un qualcosa che nasconde una seconda faccia fatta di sangue, sofferenza, morte. Una dipendenza e un eterno ricatto. Le derive della religione, i momenti in cui diventa fumo negli occhi e cortina dietro alla quale mascherare, o peggio in nome della quale perpetrare, criminalità, dolore e guerra, non sono solo quelle, tutto sommato “facili” da condannare, che portano alle ondate di terrorismo che dai tempi delle Crociate fino al lungomare di Nizza ciclicamente colpiscono il mondo. Le vere e proprie guerre internazionali e civili a suon di bombe, aerei e camion sono solo le storture più lampanti della religione, la punta dell’iceberg, quelle che attaccano direttamente il sempre autoreferenziale mondo occidentale, e che solo per questo finiscono sulle prime pagine dei giornali da cui passano inevitabilmente (e molto spesso a sproposito) sulle bocche di tutti. I problemi della religione sono in realtà molto più diffusi, molto più radicati, molto più multiformi, e di certo non si limitano all’Islam, dalla cui serietà e dalla cui onestà quasi tutti gli altri avrebbero molto da imparare. Le derive religiose attecchiscono sulla povertà, sull’ignoranza, sulle ingiustizie sociali, e ricadono sempre sul Popolo, insistite come le onde dell’Oceano, fino al decadimento morale, fino alla distruzione sociale, fino alla più completa desolazione umana e civile. Fino al demonio, a volte.
Su questo si basa Cocote, precisa e preziosa indagine antropologica ed etnografica con la quale il regista dominicano Nelson Carlo De Los Santos Arias ha vinto la sezione Signs of Life al 70mo Festival di Locarno. Prima di tutto c’è la babele religiosa di Santo Domingo, c’è la miriade di clan che mescolano con diversa soluzione il cristianesimo importato da Colombo con le religioni animiste sbarcate dall’Africa, affiancati da cattolici e protestanti più “tradizionali” in più o meno ugual numero. Lo Stato caraibico, ben di rado mostrato in Festival cinematografici internazionali, si svela come un vero e proprio calderone di credenze, di differenti usanze, di superstizioni e di opposti obblighi morali, destinati a diventare un labirinto caotico che, come un groppo alla gola, sempre più si stringe intorno al collo del protagonista Alberto: uomo semplice, giardiniere, figlio addolorato, non certo assassino. E proprio come un labirinto il regista tratta l’intera messa in scena, dal 4/3 all’anamorfico, dal bianco e nero al colore, dal 16mm al 4K, dalla camera a mano alle inquadrature fisse su porte che saranno riquadro di un gospel, come a voler ricreare in immagini quello stesso spaesamento nel quale non può che piombare chi ritorna a casa dopo molto tempo per partecipare al funerale di un padre ucciso dai potenti locali, e si ritroverà senza averne intenzione a essere attore – e non necessariamente regista – di una vendetta che va contro i suoi più basilari principi evangelici. In questo senso, duplice è la funzione di Cocote, film rigorosamente di finzione per quanto riguarda la narrazione, la messa in scena che guarda a Glauber Rocha e i dialoghi che accompagnano Alberto verso il ricatto morale e l’inevitabile oblio, e dall’altra parte indagine antropologica di rigorosa precisione documentaristica nel mostrare quasi come un Jean Rouch i riti religiosi, i canti, i costumi sgargianti, le trance, gli spasmi mistici, e soprattutto quella paura del demonio dietro alla quale agilmente si nasconde – come se ogni atto illegale o criminale fosse concesso, tanto c’è il diavolo a cui dare la colpa – la malvagità dell’uomo. In Cocote si canta, si prega, si litiga per un rito religioso fondamentale per una figlia quanto ridicolo per un figlio, ci si accusa e si difende l’indifendibile, si esplorano i luoghi e i paesaggi con ripetute panoramiche a 360 gradi, si inquadrano gli schermi televisivi e le corse in moto, ma soprattutto si impone, si muore, o in alternativa si emerge dal buio sporchi di sangue.
Nelson Carlo De Los Santos Arias mette in scena una società iniqua, basata sulla corruzione, sul bigottismo e sui favoritismi, una società nella quale la polizia non può fare giustizia quando i colpevoli di un omicidio sono troppo altolocati, se non addirittura quelli grazie ai quali i poliziotti hanno il proprio rispettabile posto di lavoro. Ma nel frattempo, in quella stessa società, fra differenze di culto, canti e trance religiose, Alberto è diventato il maschio maggiore e quindi il nuovo capofamiglia, e questa giustizia impossibile va ottenuta a costo di doversi vendicare in prima persona, a costo di dover immergere le proprie mani (fino a quel momento) innocenti nel sangue, costretto dalle circostanze e dalle pressioni (religiose) ad andare contro alle più basilari leggi dell’umanità, e pure contro alle sue (ancora una volta religiose) più intime convinzioni. Ci sono due sequenze di particolare potenza, che rendono Cocote crepitante nel suo sguardo desolato e nella sua viva urgenza: quella nella quale Alberto verrà definitivamente messo di fronte a quanto insormontabili siano le differenze di culto, e quanto sia lui a dover recedere dalle proprie convinzioni, in un monologo disperato urlatogli in faccia dalla sorella nella solitudine della natura, e poi il prefinale, in cui Alberto correrà nella notte, insanguinato dopo la sua eterna colpa, pronto a emergere dal nero solo quando la sua folle corsa verso un’impossibile grazia attraversa le rare lame di luce sulla strada. Alberto deve “risolvere la situazione”, è la società che glielo chiede, per non passare per diavolo. E mentre i riti funebri sempre più estenuanti e la rabbia pulsante di chi li celebra si stringono in una morsa nella quale Alberto si ritrova sempre più soffocato, la sua esistenza diventa un cortocircuito fra il sostanziale obbligo di vendicarsi andando contro il proprio credo e la propria mesta cristiana rassegnazione, fino al materializzarsi del controsenso di uccidere e rimanere impunito come unica possibile giustizia verso un omicida impunito.
Certo, il film ha anche qualche problema, forse è troppo ripetitivo nelle soluzioni di messa in scena, forse calca sin troppo la mano sulla presenza invadente della religiosità nel calderone culturale dominicano fra preghiere e funzioni, e forse qua e là perde il controllo sul caos visivo così minuziosamente creato fra formati e saturazioni. Ma non è questo il punto: la potenza e la rabbia di Cocote, così come la sua indagine socio-antropologica, vanno ben oltre le sue eventuali piccole sbavature. Cocote è un paradigma, una storia capitale, uno sguardo inedito su un Paese dal quale sono ben poche le immagini che in genere giungono sui nostri schermi. La religione, da sorta di anestesia per il dolore, diventa l’arma con cui colpire e fare più male, diventa ricatto, diventa peccato. Diventa l’oppio, il cappio, o forse la cocaina di chi ne fa uso. Ma nulla, nemmeno un cambio così radicale di morale, nemmeno un così strozzato sentore di giustizia, può cambiare la realtà dei fatti, nulla può limare le ingiustizie sociali dominicane, nulla può modificare l’unica triste certezza. Quel mare aperto alla maestosità della natura, per Alberto, non potrà che tornare il bordo di una piscina, che i poveri come lui dovranno tenere pulito in modo da consentire ai ricchi che prendono il sole e si beano della loro superficialità a continuare a farsi servire e riverire da altri poveri, fregandosene sdegnosamente di quello che accade sotto il loro naso.
Marco Romagna