CLOUD (2024), di Kiyoshi Kurosawa
Inizia ancora una volta il suo percorso verso gli inferi partendo da leggere increspature magari inizialmente impercettibili, il cinema di Kiyoshi Kurosawa. Da un indizio magari falso, da un’atmosfera, da una qualche distonia linguistica o musicale, da una lenta carrellata con cui giocare apertamente con le aspettative dello spettatore. Da un minimo dettaglio inspiegabile e minaccioso, o ancora da un’ombra fantasmatica che attraversa furtiva e quasi subliminale il campo visivo. Del resto, anche in un film apparentemente lontano dalle presenze più tipiche del j-horror e di fatto privo di elementi soprannaturali come Cloud, sin dall’inizio tutto è (già) fantasma. Dal protagonista bagarino digitale con il suo alter-ego virtuale, che compra interi stock di merce a prezzi da strozzino per poi rivenderla online ricaricando a migliaia per cento, e che ama fingersi ricco pur se ad ogni affare impegnato in un all-in che potrebbe portarlo alla rovina, alla (dark) lady che più volte scompare, riappare, abbandona, guarda dall’alto e truffaldina ritorna al suo fianco. Dalle piattaforme in www con cui (ri)vendere la merce pensandosi protetti dalla privacy internautica al deep-web dei truffati che come emuli di serial killer progettano la propria vendetta sognando di sorprendere il protagonista improvvisi «come una nuvola». Dagli amici e dagli amori che si riveleranno i primi traditori, ai dipendenti già licenziati che si riveleranno invece un personale angelo-milizia della causa (o forse il demone con cui ritrovarsi l’anima definitivamente dannata), fino ai dati immateriali salvati sulla materialità del supporto fisico in silicio di un hard disc per potere prima o poi «ricominciare» a vendere materia attraverso i pixel che la rappresentano. Fino ovviamente agli scatoloni apparentemente tutti uguali di quegli stessi oggetti da comprare e da rivendere, che arrivano e ripartono dalla casa-magazzino senza nemmeno uscire dai loro imballaggi. Materiali a volte veri e originali e invece a volte contraffatti, a volte semplice occasione sulle spalle di qualcuno messo ancora peggio e invece a volte vera e propria truffa ai clienti, di sicuro sempre immagine accattivante e standardizzata su cui cliccare, e quindi nuovamente copia, specchio e spettro inscindibile dal suo analogico, venduti da un impersonale user che non rende pubblici il suo volto, il suo indirizzo e la sua identità, ma che ben presto vivrà sulla propria pelle le più estreme conseguenze dell’errore e della perdita dell’anonimato. Fantasma corporale fra fantasmi digitali (anche quando a loro volta corporali) che possono essere uomini, oggetti o semplici nickname, doppi smaterializzati su Internet, o ancora veri e propri passaggi di stato fra il virtuale e il fisico che, dall’anonimato dell’avatar digitale, inaspettatamente riemergeranno come reale pericolo di vita nella realtà quotidiana. Come a sfumare all’improvviso i confini fra un mondo e l’altro, fra lo schermo e il reale, fra il bene e il male, fra il (tentare di non) morire e il dover (imparare a) uccidere, e quindi fra l’uomo e la bestia. Proprio come Kiyoshi Kurosawa, da grande maestro del cinema quale è, sfuma continuamente i confini fra i generi prima meticciando un (melo)dramma morale dalle tinte inevitabilmente neorealiste di un delinquentello online che cerca qualche soldo in più con le nervature (cyber)thriller di uno schermo «solo per i miei occhi», e poi virando la crescente trappola e il conseguente home invasion verso la commedia nera dell’inadeguatezza degli improvvisati aggressori e verso l’azione dei loro ripetuti inseguimenti del protagonista in fuga, fino al revenge movie che ribalterà predatori e prede fra pennellate in odor di yakuza, violente sparatorie ai confini del western se non proprio del film di guerra, e poi ancora buddy (movies in Technicolor) rimasti ormai soli in auto verso il nulla. Per l’ennesima riflessione sul digitale, già nel 2001 cuore di Pulse, come anticamera deresponsabilizzata e senza regole dell’inumano, come un non-luogo dove non esiste più alcun tipo di etica, di dialettica o di rispetto, ed è probabilmente ormai troppo tardi anche per la redenzione. Può esserci spazio solo per un circolo infernale di odio e di morte, fiamme di una vendetta a cui si può rispondere solo con un’altra vendetta fino a quando non rimarrà più (quasi) nessuno. Solo l’Apocalisse.
Prima è una musica che si interrompe all’improvviso. Poi è un minaccioso topo morto avvolto in un foglio di giornale. Poi è un cavo d’acciaio teso invisibile proprio sul percorso dello scooter. Poi è il nervosismo di una silenziosa attesa nella penombra. Poi è un noise in minore che sale a spingere sul pedale dell’atmosfera e dell’inquietudine per fare immaginare chissà cosa dove non c’è niente. E poi ancora è una carrellata laterale che svela una figura umana apparentemente appollaiata a spiare il nuovo indirizzo su un autobus, è un uomo mascherato dietro al vetro della porta, è una tenda che si muove sullo sfondo, è una soglia che si apre e verrà richiusa troppo tardi. O forse è più semplicemente una questione di mano, di sguardo, di modo di pensare, di scrivere, di girare e di montare. Di un’autorialità personalissima e come di consueto unica e preziosa non solo nel genere ma nella commistione di generi, con cui l’iperprolifico Kiyoshi Kurosawa, pochi mesi dopo lo strabiliante mediometraggio Chime sorta di trattato definitivo sul j-horror presentato all’ultima Berlino e in (breve) attesa che Le chemin du serpent, polar/torture (più o meno) auto-remake francese che ri-ambienta Serpent’s path a Parigi con Damien Bonnard e Mathieu Amalric, già uscito in Giappone a metà giugno, trovi la sua prima internazionale fra poche settimane a San Sebastián, sale in motoscafo e torna fuori concorso anche al Lido come prima proiezione di mezzanotte della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia edizione numero 81. Con un film, per molti versi summa delle suggestioni della sua intera carriera, forse pure definibile come leggermente minore all’interno della sua straordinaria filmografia, e di sicuro per molti versi spiazzante, atipico, difficilmente classificabile se non impossibile da classificare, eppure proprio per questo ancora una volta semplicemente bellissimo nella sua capacità di far crescere a poco a poco il mistero e il genere, e poi nelle infinite intuizioni narrative e formali con cui svelarli e più volte ribaltarli, rimetterli in discussione, lasciarli lentamente detonare mentre insieme a loro esplodono l’economia capitalista, la società con le sue iniquità e le sue derive violente, il mondo virtuale che da universo totalmente separato e parallelo entra di prepotenza in quello reale, la morale dei singoli che imparano a uccidere e che magari ci prendono gusto, e non certo in ultimo le forme del cinema. Fra una casa di campagna isolata che ricorda la villa messa in scena da Bong in Parasite e la crescente, ineluttabile spirale di violenza del Sion Sono di Cold fish, passando per il Manoj Night Shyamalan di Bussano alla porta e del recentissimo Trap e quindi inevitabilmente per Hitchcock e De Palma, ma anche per le aggressioni ai debitori del Kim Ki-duk di Pietà, per gli ostaggi legati e imbavagliati più tipici del pulp e dell’hard-boiled, e infine per gli scontri a fuoco che uno dopo l’altro eliminano tutti i nemici mentre il protagonista si ritrova in qualche modo intrappolato in una situazione con una sola via d’uscita, e la sua ambigua metamorfosi non potrà che spostare almeno parzialmente l’empatia verso i suoi assalitori precedentemente rovinati dalle sue speculazioni. L’ennesimo ribaltamento di prospettiva con cui Cloud, nel suo continuo slittamento di generi e linguaggi cinematografici, permette a Kiyoshi Kurosawa di scavare ancora una volta all’interno del delitto e del castigo, della persecuzione e della violenza, del senso di colpa e dell’ipocrisia, dell’autocontrollo e del panico, della vendetta e dell’impossibilità di riscatto, ma pure dell’immaginazione e del cinema. Per installarsi proprio al centro dell’enigmaticità e delle contraddizioni, dove tutto è ibrido e non può più esistere alcuna divisione netta nemmeno fra materico e virtuale, ma solo i livelli diversi della complessità sempre più ramificata del Male.
Marco Romagna