CLORINDO TESTA (2022), di Mariano Llinás
Clorindo Testa è un documentario di Mariano Llinás sull’architetto brutalista argentino Clorindo Testa; ma è un film-argomento, un film-contenitore più che un film di espressione, o in altre parole, è un film-cortocircuito, paradossale, perché non tratta di Testa parlando di Testa, o partendo da Testa. È sicuramente un film di ripetizioni e allitterazioni e giochi di parole, un’opera cerebrale, o, in altre parole, un film di testa, pur non essendo di Testa, ma di Llinás. E Llinás arriva a parlare di Testa solo grazie a un altro Llinás, il padre Julio, che su Clorindo Testa a sua volta aveva scritto un libro in tempi impensabili, quando Testa era un pittore poco noto e non uno degli architetti più celebri del paese. A Mariano Llinás è stato commissionato un film su Clorindo Testa, ma lui ha deciso di fare un film di Mariano Llinás sul libro di Julio Llinás su Clorindo Testa, chiamato a sua volta Clorindo Testa, come il film del figlio. Non è un film su Clorindo, non è un film su Julio, ma invero a malapena può essere considerato un film sul libro di Julio su Clorindo – di cui Mariano analizza e legge solo alcuni passaggi. Il film esclama ciò, una non-appartenenza a tutti i soggetti di cui potrebbe essere oggetto, e nella sua breve durata esprime infiniti rompicapi di significato e significante (Llinás e Testa: nei confronti della Storia, dell’arte, della politica, delle loro vite ed esperienze private, in relazione a quello che è l’occhio quasi autistico del regista), in modo tale che sembra quasi che Julio Llinás e Clorindo Testa, semplicemente esistendo, abbiano permesso di far fare a Mariano Llinás un film su se stesso, in cui Julio e Clorindo sono pretesti, pregressi storici, per entrare nel maniacale processo creativo angolare dell’autore dietro il fluviale La Flor, l’ultimo grande film-mondo della nostra epoca.
Il film su Clorindo Testa è un film su commissione, e Mariano, dentro il film, si rende conto di come l’opera che si sta guardando differisca dalla consegna, esca dal percorso segnato del documentario inteso come documento, proceda per metanarrazioni; e perciò, il film Clorindo Testa a sua volta implode con ironia, bruciando le proprie stesse premesse, andando verso divagazioni umoristiche in cui Llinás re-immagina i suoi incontri coi committenti in più versioni più o meno sarcastiche. Si arriva al punto che i committenti chiamano un altro regista per fare ‘il vero documentario su Clorindo Testa’ – ma tale altro regista altri non è che un cugino di Llinás, che Mariano va a trovare al fine di intervistarlo su Clorindo Testa, portando a una lunga scena di dialogo in cui Mariano parla così tanto nel proprio linguaggio, della propria visione intima e univoca e per niente oggettiva di Clorindo Testa e del padre, da non imparare nulla di nuovo. Neanche si capisce, a volte, cosa è documentario e cosa è mockumentary, tanto è intento il regista a rimettersi in scena, volto impassibile che reagisce alle reazioni degli altri a quello che ha fatto, che sia il collaboratore Agustin Mendilaharzu o la madre di suo figlio, Laura Paredes, protagonista di La Flor con le altre attrici del collettivo Piel De Lava e di Trenque Lauquen di Laura Citarella, l’ultimo capolavoro del Pampero Cine finito in testa alla classifica dei migliori film di quest’anno per i Cahiers du Cinéma.
Insomma, in Clorindo Testa il cortocircuito diventa il film, la non-storia di un brutalista diventa la storia circolare di uno sperimentatore del cinema un po’ giullare, un po’ poeta, che scambia oggetto e soggetto in modo talmente fluido e convincente da farci dubitare che il medium sia il messaggio; da farci pensare circolarmente ai rapporti oggetto-soggetto piuttosto che a farci conoscere oggetti e soggetti. Una delle prime osservazioni che diventano chiare durante la visione: l’impossibilità per l’artista di avere od ottenere uno sguardo oggettivo materiale universale sulle cose che racconta e rappresenta, soprattutto di fronte a un soggetto che in modo anche liminale ha sfiorato personalmente la biografia dell’artista.
Talvolta l’illusione del cinema di finzione si rinforza, talvolta si indebolisce; il regista guarda in macchina, si inserisce in campo, quando per interferire, quando per personalizzare. Di rado entra in veri e propri biografismi o autobiografismi, preferendovi girare attorno al punto per far risaltare qualcos’altro, ma quando ciò accade è per aprire la parentesi più intima del film, quella su Julio Llinás, il fantasma che aleggia per ogni fotogramma di Clorindo Testa. Un uomo che un giornalistucolo argentino ha paragonato alla Storia di tutta l’Argentina, che descrive Julio così: un industriale che ha perso tutto per colpa del gioco d’azzardo, come il paese ha perso tutto per colpa del Peronismo. Di fronte a certe asserzioni metaforiche tra il superficiale e il grottesco, la madre di Llinás si ricopre di vergogna, mentre Llinás stesso se la ride e si fa burla del proprio albero genealogico e del contesto, leggendo ad alta voce l’articolo, sottolineandone l’aura menzognera, e soprattutto interpretando il testo con arguzia, sarcasmo e ben precise stoccate politiche, non esattamente tenere nei riguardi delle frequentazioni massoniche, della demagogia, delle simpatie fasciste-franchiste e delle derive assolutiste di Peron: «ma se il periodo di rovina di Julio Llinás è causato dal gioco d’azzardo e dall’incidente d’auto e dal cambiamento di stile di vita che ha deciso di intraprendere dopo aver messo su famiglia… allora la famiglia di me, autore, Mariano Llinás, è il Peronismo della vita di mio padre?». Quando l’allegoria sull’arte diventa un altro testo, uno più politico ed ermetico, uno che propone idee invece di meramente descriverle per suggestioni, il film Clorindo Testa finisce per approfondire uno sguardo – a differenza di quello che accade soprattutto all’inizio del film, che è perlopiù un sovrapporsi di sguardi atto a creare confusione e dialettica sull’oggetto artistico. Usare l’immagine e la parola per guardarsi l’ombelico, così, pur con un’ironia onnipresente che fa da filtro sul reale, diviene un’altra forma di linguaggio – che mostra il mondo nascosto nell’Io e l’Io nascosto nel mondo, l’universale ineluttabilità della Storia nel vissuto personale. Non è mera autocommiserazione resa spettacolo né un pornografico mettersi a nudo, è il grande gioco del linguaggio, del logos, del discorrere interiore che rincorre, raggiunge e si unisce con la manifestazione del concetto.
Nicola Settis