CLAIRE’S CAMERA (2017), di Hong Sang-soo
Non serve molto per fare grandissimo (piccolo) cinema. Bastano pochissimi giorni di riprese, un minutaggio di poco oltre l’ora, una manciata di location e qualche amico fra gli interpreti, con il consueto stile essenziale e minimale di ostinata matrice rohmeriana che sappia traslare in immagini e dialoghi la pura ossessione, sempre più apertamente autobiografica, che Hong Sang-soo porta da sempre sullo schermo con sincerità, umiltà, grazia e delizia. I suoi film, nelle lunghe inquadrature fisse, nelle leggere panoramiche e nell’utilizzo sopraffino degli zoom a mostrare i lunghi, esistenziali e spesso ubriachi dialoghi, sono agrodolci squarci di vita, finestre che si aprono e si chiudono sull’istante e sulla parola, scelte rimesse in discussione nella costante ricerca del senso più intimo dell’essere umani. Esattamente un anno fa, nei giorni del Festival di Cannes 2016, Hong si trovava sulla Croisette, privo di film da presentare nelle selezioni cannensi ma con Yourself and yours, che nei mesi seguenti andrà prima a Toronto e poi a Rotterdam, al gigantesco Marché du Film, il mercato cinematografico che viene ospitato nel ventre del Palais e nei padiglioni sulla spiaggia adibiti a uffici temporanei e luoghi di rappresentanza. Negli stessi giorni, giunta con il suo fascino unico e nella sua eterna giovinezza, era presente a Cannes anche Isabelle Huppert, a lungo applaudita insieme a Paul Verhoeven per il magnifico Elle: ecco l’occasione per, finalmente, tornare a lavorare insieme dopo In another country (2012).
Claire’s camera, ospitato fra le Proiezioni Speciali fuori concorso, è il primo dei due film di Hong Sang-soo selezionati a Cannes70 (il secondo, The day after, concorrerà invece per la Palma d’Oro), ed è un film che non può prescindere da Cannes e dal suo Festival, vero e proprio meta-Cinéma de la Plage – con tanto di nuovo cameo di Mark Peranson caposelezionatore a Locarno dopo essere stato co-autore della sceneggiatura di La ultima pelicula (2013) di Raya Martin. Girato in un paio di giorni sulle spiagge, nei bar e sulle vie adiacenti il Palais non solo sfruttando l’occasione di essere già tutti qui, ma usando il Festival stesso per interrogarsi apertamente sul fuoco dell’artista, su come la settima arte abbia bisogno di maggiore onestà, e su come la sua industria sia, come platealmente ricordato dalla protagonista venditrice al Mercato alla quale “Vendere fa schifo”, un mondo dal quale tentare di tenersi il più possibile lontani, Claire’s camera è l’ennesima incursione di Hong Sangsoo nel suo cinema unico e personalissimo, semplice e sublime, ossessionato e dolcissimo. Ma, prima di inoltrarsi nelle maglie di Claire’s camera, che al metacinema tipico di Hong aggiunge l’accredito Marché al collo, occorre fare un passo indietro, anzi tre, tornando a quel set galeotto di Right now, wrong then (2015) su cui la leggenda vuole che sia iniziata la liaision d’amour fra il regista e l’attrice Kim Min-hee, per la quale Hong ha lungamente tradito e poi lasciato la moglie scatenando in Corea un fracasso mediatico probabilmente ancora superiore allo scandalo al tempo dell’amore Rossellini-Bergman. Già il precedente On the beach at night alone premiato all’ultima Berlinale, in questo senso, si poneva come aperta allegoria della vicenda personale di Hong e della sua musa, mettendo in scena, in luogo delle consuete variazioni sui temi dell’innamoramento e della fragilità nei rapporti, l’attrice costretta alla fuga, la fine dell’amore, l’alcolismo, la depressione, e solo alla fine il ritorno alla tenerezza; Claire’s camera segue un percorso contenutistico analogo, declinando una nuova allegoria di continui riferimenti alle vicende personali di chi lo ha scritto e diretto in licenziamenti per gelosia, amori impossibili (da dimenticare?), registi a Cannes che si interrogano sul cinema e sulla propria necessità di ubriacarsi, poesie in francese lette con “voce meravigliosa”, afflati artistici intermittenti e fotografie a sviluppo istantaneo.
“È strano”, ripete più volte il personaggio di Isabelle Huppert, insegnante parigina in visita a Cannes per il cortometraggio di un’amica, che si professa “non artista” e che invece si dimostra splendida lettrice, timida poeta e fotografa dall’occhio straordinario con la sua Claire’s camera, la Polaroid che porta sempre appresso e con la quale immortala le persone che si trova davanti, incarnando un palese riferimento, visto il suo nome, a La camera chiara, il fondamentale saggio sulla fotografia – e per estensione sull’immagine che farà incontrare ancora i protagonisti – di Roland Barthes. È strana la poesia, è strano l’affresco, è strano il regista nella sua alcoolica mancanza d’affetto: è strana la vita. Hong Sang-soo, del resto, non ha mai nascosto le sue depressioni, non ha mai nascosto di bere più o meno come una spugna (e anzi ha più volte usato l’alcool come vero e proprio protagonista aggiunto dei suoi film, sorta di macchina della verità necessaria per penetrare le corazze e le maschere sociali), e forse il suo (meta)cinema di sguardi e di sentimenti, pur non variando di una virgola nella sincerità e nella tenerezza, negli ultimi tempi e in seguito agli ultimi avvenimenti biografici si è parzialmente incupito, affiancando alle ossessioni d’amore quelle per la propria, appunto, “strana” fase di vita, e trasformando così la sua opera, ancor di più, in una continua autobiografia e in un puro atto di catarsi. In questo senso, Claire’s camera è un piccolo e sublime film di doppi, di parole e di immagini, nel quale Jeong Jin-yeong interpreta So Wansoo, l’ennesimo regista/alter ego (questa volta, per fugare ogni dubbio, messo in scena pure con il nome di Hong storpiato) che si è concesso una scappatella con la bella Manhee, interpretata ovviamente da Kim Min-hee e giovane “seller” licenziata dalla sua capa per via di una gelosia chiamata, più comodamente, “disonestà”. Entrambi incontreranno per caso Claire/Isabelle Huppert, e saranno le sue fotografie (che non vedremo mai, come immagini inafferrabili ed eteree) il ponte per iniziare a riavvicinarsi, (auto)analizzarsi, forse capirsi, rendendosi conto dei continui cambiamenti umani – “Sono ancora quello nella foto?” – e dei rispettivi ruoli nel mondo.
Quella di Claire’s camera è una sinossi giocoforza semplice, minimale come lo stile di Hong Sang-soo, necessariamente da girare in pochissimo tempo e spostandosi il meno possibile. È un turbinio di incontri, nei quali i personaggi finiranno per raccontarsi a vicenda, esprimersi e riflettere sul proprio spirito artistico. Quello, palese ma fallace, di un regista ubriacone e depresso, stimato per i suoi film ma incapace, da uomo, di mettere sul piatto i propri sentimenti, preferendo il litigio e la sbronza solitaria all’amore, preferendo la bugia a quella sincerità che vorrebbe far trasparire dal suo cinema. Quello, apertamente negato ma pronto a prendere piede, di Claire, della sua Polaroid, del suo trasporto nella lettura delle poesie in francese, della sua ammissione sull’esistenza di un diario poetico mai pubblicato à la Paterson, della sua pazienza – da buona insegnante – nell’impostare la corretta e dolce pronuncia parigina a chi mastica a fatica giusto solo un po’ di inglese e come prima lingua ha l’imparagonabile gutturalità del coreano. E quello, oscuro ma al contempo solare, di Manhee, che sotto la maschera della cupa accreditata Marché licenziata senza motivazioni plausibili da un lavoro che non le piaceva nasconde un’eterna passione per comporre canzoni. Accade tutto in un paio di giorni, in Claire’s camera, accade tutto a Cannes, dove le stelle sono più brillanti, accade tutto in tre lingue, il coreano, il francese e l’inglese come unico possibile ponte di comunicabilità. Quello di Hong Sang-soo è un film di sguardi verso altri occhi, di scatti, di dialoghi sempre più intimi, di alcool, di passeggiate sulla spiaggia, di marmorei cani che sonnecchiano amabilmente sulla Croisette. È un film di piatti coreani non ancora assaggiati, di amicizia, di proiezioni ufficiali prima delle quali, anziché tendersi una mano, si finisce ancora una volta per allontanarsi ulteriormente, per dire le cose sbagliate, per pensare ancora una volta all’apparenza – i vestiti – anziché alla genuinità dei sentimenti di due amanti che si mancano a vicenda, e che per questo stanno male. Finirà con un messaggio inaspettato, con la capa che richiama Manhee, ma non sappiamo se le ridarà il lavoro, sappiamo solo che il Festival di Cannes prima o poi inevitabilmente dovrà finire, e che verrà il momento di ricominciare a impacchettare, di smantellare l’ufficio, di andare via. Ed è proprio questo finale ambiguo e discrezionale a chiudere il cerchio, a far coincidere il punto di partenza con quello di arrivo, o forse no, perché la vita non è sempre tonda, ma segue forme strane, ellittiche, spesso irregolari e imprevedibili. Spesso di corsa, come un treno nella notte, e quindi come il cinema. Magari proprio come un film piccolo e straordinario come Claire’s camera, nuovo regalo prezioso da parte di un autore sempre più indispensabile.
Marco Romagna