CITIZEN K (2019), di Alex Gibney
È un altro attacco al potere quello di Gibney, o per lo meno un tentativo. Questa volta a finire nel fertile mirino del documentarista americano è la Russia, o meglio quel contesto magmatico che dal crollo dell’Unione Sovietica portò linfa vitale per nuovi e perversi arrampicatori sociali. Ascesa e caduta di una nuova visione del mondo tra Europa e Asia attraverso le parole di Mikhail Khodorkovsky, forse il più enigmatico e perverso di tutti, sopravvissuto all’onda putiniana, e ora a Londra per tentare di organizzare timide ed estemporanee opposizioni al regime. Presentato fuori concorso alla 76ma Mostra di Venezia, Citizen K è un film che parte, almeno nella volontà di Gibney, dalla possibile ricostruzione di un percorso storico, politico ed economico, che ha portato lo stesso Putin a essere un soggetto così determinante (e preponderante) negli scenari globali – tanto da interessarsi alle elezioni presidenziali americane, e forse non solo quelle – fino a stravolgerli. Ed ecco che allora l’esperienza diretta di Khodorkovsky, seppur con molti dubbi soprattutto su ciò che riguarda la sua possibile “conversione”, diventa un viaggio lungo trent’anni che si erge a simbolo di un periodo spesso oscuro. Tutto, apparentemente, nasce con la condanna (per evasione fiscale) del signor K. Siamo esattamente nel 2003, all’alba dell’era del nuovo Zar, e Khodorkovsky (dalla sua cella siberiana) riflette per dieci lunghi anni su di un sistema che esso stesso ha sicuramente contribuito a esasperare.
Le radici del tutto sono però assai lontane, e partono proprio dall’elezione di Eltsin. Non tanto dal primo mandato di quello che divenne il capostipite dei governatori della neonata Federazione Russa, ma da quel secondo che, viste sia le condizioni psicofisiche del presidente, sia la sua bassa popolarità condita da una sempre più distinta pulsione di rigetto nei confronti di questo nuovo sistema capitalista (e selvaggio), sembrava impossibile. Saranno proprio i nuovi oligarchi (tra le cui fila “militava” anche un giovane Roman Abramovich, capitanati da Khodorkovsky (che, nel frattempo diventa il magnate del petrolio di tutta la regione) a favorire in modo spudorato – basti pensare alla ricostruzione in studio (nella casa del presidente sempre più sciancato) del video necessario alla campagna elettorale) – la rielezione di Eltsin in cambio di un trattamento di riguardo. Tutto sembra tranquillo, le compagnie si ingrandiscono, il lavoro è tornato. Ma con esso si sono ripresentate anche le ferite di una disuguaglianza spropositata che polarizza sempre più un paese sterminato e lacerato, sempre più indecifrabile. In questo substrato assai complesso l’ascesa a sorpresa di Putin, appena sequenziale all’abbandono del vecchio leone Eltsin, pareva poco più di un passaggio di consegne ben poco traumatico per gli oligarchi che controllavano in qualsiasi ambito la società russa. E invece tutto cambia, assai rapidamente. C’è chi fugge, c’è chi finisce in carcere e c’è chi muore. Il cambio di direzione e la violenza accentratrice dell’ex dirigente KGB è un onda che travolge tutto e tutti, Khodorkovsky in primis.
Alex Gibney parte da lunghissime panoramiche aeree delle centrali petrolifere possedute un tempo dal nostro cittadino K, le mappa e le guarda nella loro verticale fierezza stagliarsi lungo la sterminata vastità della steppa, la stessa che vide poi Khodorkovsky alle sbarre per dieci lunghi anni prima di essere rilasciato e così trasferirsi a Londra. L’intervista con il magnate pone più di un dubbio (dai capitali sterminati – oltre cinquecento milioni di euro rimastigli – che ora utilizza per organizzare queste pseudo-sommosse, al nuovo ruolo filantropico suggeritogli da una specie di rivelazione che il carcere gli avrebbe portato in dono), evidenziando come l’ex-petroliere fosse un imprenditore avido dalla lungimirante freddezza senza scrupoli, dall’intelligenza sopraffina e dall’innegabile visionarietà. Pare pian piano però distanziarsi dall’indagine dello stesso Gibney, questa volta meno centrata rispetto al solito, tesa anche a individuare quelle traiettorie che in un brevissimo lasso di tempo portarono questo “turbo-capitalismo” al potere prima di essere (forse) dissoluto in una nuova forma di nazionalismo autarchico e inquietante. Un paese ancorato al passato, intrappolato nel presente e inquieto verso il futuro. Nelle venti ore di intervista, tra l’autore e il protagonista, ben poco emerge – anche su questo lato – se non questa stregua tensione per il potere nelle sue forme più disparate e spregiudicate. Citizen K è un film che mette in difficoltà lo stesso autore, ampliando a dismisura le traiettorie di indagine, nella dispersione continua di posizioni e punti di vista, ribaltamenti dei rapporti di forza come della dubbia moralità di chi quella storia l’ha fatta (e poi pure subita) sulle proprie spalle. Impossibile prendere una posizione, impossibile anche forse solo averla, anche se il regista spesso pare rischiarla nel pampleth anti-putiniano (comprensibile, visto il fascino magnetico e perverso di mister K). Lo stesso Gibney cita Pomerantsev, vedendo ancora oggi la Russia come luogo “in cui nulla è vero e tutto è possibile”. Mai frase fu più indicata ed esplicativa.
Erik Negro