5 Settembre 2016 -

CINEMA FUTURES (2016)
di Michael Palm

Negli ultimi frammenti tra i primi due decenni del terzo millennio, il cinema ha seguito la seconda più grande rivoluzione della sua storia. Se pensiamo a quello che ha rappresentato il passaggio dal muto al sonoro, dovremmo allo stesso tempo interrogarci su quello che ha portato il supporto analogico a trasferirsi su quello numerico. Allo stesso tempo però questa rivoluzione linguistica non ha avuto, né a livello teorico né concettuale, un’area dibattito così ampia rispetto alla sua portata determinante sulle immagini che oggi vediamo. Per il suo cinquantesimo anniversario, in collaborazione con la SixPack Film, l’Österreichische Filmuseum ha lasciato al documentarista Michael Palm l’onere e l’onore di scandagliare questo crinale di indagine così scosceso, ma necessario per cercare di capire dove stiamo andando. Nasce così Cinema futures, proiettato fra i documentari sul cinema di Venezia Classici alla settantatreesima Mostra, il cui assioma di partenza è che il cinema ai tempi della conversione non è altro che una cosa altra rispetto a ciò che è (stato) d/nel novecento, proprio perché dall’impressione fisica del reale si è passati a una sorgente di codici digitali, e dunque il rapporto diretto tra la nostra visione e la sua rappresentazione viene totalmente a mancare. I traghettatori di questo viaggio sono coloro che più di ogni altro hanno sentito la misura di questa rottura; si parte dagli autori ed artisti (Scorsese, Nolan e la Dean), passando per curatori e filosofi (Ranciere e la Brenez), archivisti e restauratori (Klamer e Cherchi-Usai) fino alla bassa (?) manovalanza che creava, lavorava, conservava e proiettava pellicola. Questo proprio perché il senso alla base di una rivoluzione così enorme ha colpito tutta la fabbrica cinema in una maniera probabilmente inevitabile ma con riscontri spesso devastanti.

Si parte da due statue che paiono guardarsi. Da una parte quella del primo Joda totalmente realizzato in computer grafica (Star Wars: Episodio I – La minaccia fantasma, 1999), e dall’altra quella di Eadweard Muybridge, il primo che tentò, e riuscì, a dare un movimento alle immagini. E’ tutta una questione di impressioni dunque, le orme dell’uomo del neolitico lasciate sulla terra come le prime dell’umanità sul suolo lunare sono le stesse scie dell’essere scomposte in fotoni che casualmente colpiscono la superficie impressionabile in argento della pellicola. Ora invece sono le coordinate spaziali e cromatiche a definire una ricostruzione, una rappresentazione di informazioni (codificate in cifre binarie) che assumono un numero definito di stati. Come ben si può intuire ciò determina una rottura totale con il rapporto ontologico dell’immagine sul reale. Allo stesso modo pensare al senso di archiviazione della memoria subisce lo scarto sulla propria frontiera del visibile, “le monadi nelle quali il mondo si riflette” e l’impossibilità della sua durata. Se il senso stesso della rappresentazione era possibilmente legato a questa unità di contrari (occhio meccanico della macchina e cosciente dell’autore, per Ranciere) ora tutto ciò diventa impossibile per la mediazione virtuale di quella codifica. Allo stesso modo il rapporto di un cinema provvisoriamente morto (nell’atto di essere girato) perché eternamente vivo (nella sua esposizione) definiva il concetto stesso di simulacro fisico della memoria. Quello che era “il significante a cui non doveva corrispondere nessun significato” (Baudrillard), “l’annientamento dell’anima” (Benjiamin), o “l’immagine demoniaca” (Deleuze) oggi pare lampante che non possa più essere. Lo svuotamento numerico della rappresentazione coincide ampiamente con l’estrazione e la generazione di “modelli di un reale senza origine e realtà”, sempre secondo Baudrillard, perché il post-contemporaneo digitale sostituisce allo schema della persistenza (e quindi alla memoria) di quel reale i segni di esso, i modelli che penetrano l’immaginario, infrangendo per sempre la fisicità ed il riflesso di un ricordo. Il discorso sarebbe estremamente più complesso, ma appare realmente evidente, come il documentario mette in mostra, che il linguaggio tecnico, filosofico ed addirittura poetico su cui stiamo lavorando non ha nulla a che fare con quello precedente. Su queste basi teoriche, in un certo senso esistenziali rispetto alla storia del film, inizia a dipanarsi la ricerca di Palm e dei suoi compagni di viaggio.

Ci sono altri aspetti fondamentali di questa conversione, che abbracciano un lato politico e un altro legato alla conservazione, entrambi accomunati dall’esigenza stessa del mercato. Come ben sappiamo della triade d’esposizione del film (produttore – distributore – esercente) l’egemonia spesso spetta alla distribuzione, ed è in un certo senso lei ad aver giocato un ruolo determinante del passaggio. Il cinema nel tempo dei multisala è strettamente legato a un fruizione fortemente estemporanea (il primo e, non sempre, il secondo weekend dall’uscita) che esige un’ingente quantità di copie utilizzabili in un brevissimo lasso di tempo. Anche per questo il DCP (Digital Cinema Packaging, supporto Sony e poi codificato con le altre aziende) ha ovviato a quello che poteva essere sostanzialmente il problema delle copie in pellicola da smantellare appena il film usciva dal grande mercato. Questa forzatura però ha pressoché ucciso le aziende che traevano i ricavi maggiore dalla produzione di 35mm in poliestere, creando inoltre enormi disagi sulle strutture professionali di operai altamente specializzati e licenziati in tronco. Dopo l’abbandono anche della FujiFilm, l’unica compagnia che la continua a produrre emulsione (sebbene in quantità risibile rispetto solo ad una quindicina di anni fa) è la Eastman-Kodak. Questo perché, tolti i pochissimi autori rimasti legati all’analogico, peraltro intervistati nel documentario, sono proprio le istituzioni legate alla conservazione ed i musei del cinema a usufruirne in massa. Su questo si innesta forse il discorso fondamentale, ovvero quello del concetto della memoria audiovisiva, della sua nuova dimensione e probabilmente della sua perdita. Il digitale ha senza dubbio risolto apparentemente gravosi problemi di spazio e di praticità, ma allo stesso modo ne ha creati enormi altri. Palm fa appunto riferimento a Blade Runner, a quei simulacri in grado di vivere soltanto per quattro anni. Ebbene si, questa è la durata teorica dei nuovi supporti, senza dimenticare l’aspetto legato alla sua riproduzione. Meno di vent’anni fa un floppy disk rappresentava una forma di avanguardia tecnologica, ma ora con quale macchina saremmo in grado di leggerlo? Da questi scenari quanto meno infausti nasce l’esigenza degli stessi conservatori di tenere viva la produzione di pellicola per evitare la catastrofe dialettica di una perdita di memoria collettiva legata essenzialmente al novecento e a tutte le sue derive che solo l’immagine potrebbe conoscere. Perché gli archivi non influenzano soltanto la percezione del passato, ma determinano anche le potenzialità e le possibilità del futuro.

Ci sarebbero ancora decine di interrogativi da porci su questo limbo della conversione e delle sue conseguenze, a iniziare da quello che provvisoriamente li lega tutti, alla domanda fondamentale: il cinema è morto o solo in via di trasformazione? Cinema Futures in tutto ciò rappresenta attualmente uno dei progetti più sentiti e completi, che si addentra in questa selva oscura che non sa ancora dove potrà cercare la sua luce. A un certo punto del film Apichatpong Weerasethakul afferma che “Bisogna accettare il fatto che ogni film è transitorio, non può durare per sempre, è come un sogno, perché è come la nostra vita, non è eterno”. In fondo noi stessi viviamo questa provvisorietà inquieta del cinema, e siamo la sua stessa proiezione di universo platonico prima che semiotico in cui dopo cento e venti anni cambia totalmente il (suo/nostro) oggetto del desiderio. Quel senso infinito di attraversare testi, suoni, linguaggi, spazi, codici di questa contemporaneità non potrà mai appartenere alla conversione perché è proprio di chi riprende e di chi guarda, del rapporto umano che si crea al di là delle tecniche e delle arti nel campo invisibile del reale. Il futuro c’è, e ci sarà, partendo proprio dal riportare in luce il (nostro) passato, ed è sostanzialmente su questa frontiera che l’opera di Palm agisce, mettendoci di fronte a un piccolo momento di riflessione in cui chiederci dove stiamo andando prima ancora di cosa stiamo guardando.

Erik Negro

“Cinema Futures” (2016)
126 min | Documentary, History | Austria / India / Norway / USA
Regista Michael Palm
Sceneggiatori Michael Palm
Attori principali Margaret Bodde, David Bordwell, Nicole Brenez, Paolo Cherchi Usai
IMDb Rating N/A

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