CIGARE AU MIEL (2020), di Kamir Aïnouz
Sta tutto in una leggerissima sfocatura sul volto della protagonista, simbolo della sua incertezza e della sua risolutezza, del suo contemporaneo sentirsi drammaticamente sola e del suo voler essere lasciata sola e libera per poter crescere e sviluppare una propria personalità. Perché è prima di tutto una grande e orgogliosa ricerca di emancipazione Cigare au miel, opera d’esordio della cineasta franco-algerina Kamir Aïnouz da non confondersi, come qualcuno ha improvvidamente fatto in Sala Perla sbottando in un perentorio «È un uomo!» già scolpito nella leggenda festivaliera, con il quasi omonimo fratello Karim autore lo scorso anno de La vita invisibile di Euridice Gusmao. Un fraintendimento, quello dell’avventato accreditato, subito smascherato dalla regista presente in sala pronta ad alzarsi in piedi per accogliere l’applauso preventivo del pubblico, e rivelatosi se possibile una cantonata ancor più completa durante la proiezione, mentre lo schermo si illuminava di un lavoro che solo ed esclusivamente una donna avrebbe potuto pensare, scrivere e dirigere. Un film profondissimamente femminile per sguardo e per emozioni, per intimità e per dilemmi esistenziali, per forza nel resistere e per profondità dei sentimenti. Per la capacità ben oltre il verbale di esprimersi con uno sguardo, con un gesto, con un movimento, con un sospiro. Un film di una donna su una donna fatto di voglie, di paturnie e di dolori femminili, con cui esplorare la potenza e gli arzigogoli del desiderio femmineo lungo il difficile cammino per affrancarsi dalle gabbie sociali e finalmente emergere, libera e indipendente.
Ma Cigare au miel, a partire dal titolo focalizzato su quei dolcetti tipicamente magrebini cucinati dalla nonna che, alla stregua di una madeleine proustiana, incarnano il senso di appartenenza, è anche l’incontro/scontro fra tre culture, tutte patriarcali, tutte fatte di differenti e sempre più occlusive regole, tutte profondamente contraddittorie nei loro rapporti di causa ed effetto. Tanto che proprio quei genitori che vivono nel terrore che la figlia possa venire «deflorata» e tentano invano di impedirle di uscire e vedere ragazzi proveranno nel frattempo a combinarle un matrimonio con quello che sarà il suo stupratore (semplicemente straordinaria la carrellata a precedere combinata con effetto vertigo con cui l’autrice mette in scena il turbamento sconcertato e disorientato della protagonista appena uscita dalla stanza d’albergo, già decisa a non dire mai nulla a nessuno di ciò che era appena successo), e più in generale quella loro cultura islamica laica ed erudita che rispetto al già patriarcale occidente sembrava così rigida e asfissiante dovrà a sua volta scontrarsi con l’avvento del fondamentalismo e delle sue rappresaglie contro ogni intellettuale. C’è l’approccio spregiudicato e occidentalissimo di quello che diventerà il primo ragazzo, fra il «belle tette» con cui presentarsi nei corridoi di scuola e le ripetute e frustrate richieste di partecipare a rapporti a tre o a quattro, c’è la chiusura dei genitori algerini, fra gli avvertimenti della madre giustamente preoccupata dal dominio dell’uomo sulla donna e l’iperprotettività quasi violenta di un padre amorevole in ansia per la reputazione di una famiglia immigrata in costante via di accettazione, e ci sono le notizie che giungono dal nord Africa, fra i telegiornali che elencano omicidi e le telefonate con la nonna che rifiuta di lasciare la Cabilia, fra i conflitti armati e le minacce ai bambini (e ancor più alle bambine) “colpevoli” di studiare.
Presentato in apertura delle Giornate degli Autori a Venezia77, Cigare au miel è un ellittico coming of age di vertigine, autonomia e progressiva maturazione, un apologo sulla potenza dirompente del desiderio di liberarsi e vivere la propria vita. Un film eroticissimo senza mai scoprire un solo centimetro di pelle, politicissimo senza mai parlare esplicitamente di femminismo, di patriarcato o di differenze sociali, personalissimo senza mai esagerare nell’autobiografismo innestato in una protagonista che pure è evidente alter ego della regista, come lei figlia di immigrati e «doppia» fra la cultura araba d’origine e quella occidentale della borghesia parigina in cui è nata e cresciuta, come lei adolescente frastornata durante la guerra civile algerina dei primi anni Novanta e la radicalizzazione dell’Islam, come lei capace di ribellarsi nemmeno troppo silenziosamente fino all’agognata autonomia. C’è la scoperta del corpo e dell’intimità, nella parabola della diciassettenne Selma ottimamente interpretata da una classe ’99 Zoe Adjani la cui straordinaria bellezza ricorda in ogni singola inquadratura tutti i legami di parentela con zia Isabelle. Un corpo mercificato proprio quando si tenta di proteggerlo dalla mercificazione, e invece fondamentale mezzo per l’autodeterminazione quando cadono i divieti e si vive appieno il desiderio senza più tabù. C’è la scoperta delle pulsioni e dei desideri, c’è il primo amore trovato nell’aitante e sfacciato Julien e c’è la perdita della verginità fra ortaggi e prime consenzienti volte. C’è il dolore di chi si sente tradita e c’è la masturbazione compulsiva sotto le lenzuola come via “proibita” per sentirsi libera.
Ma soprattutto c’è il montare del conflitto generazionale, fra chi vuole semplicemente vivere assecondando ciò che sente di volere e chi, a furia di tentare di proteggere le supposte fragilità della figlia, finirà per non fare altro che rivelare le proprie nel progressivo disgregarsi di una famiglia – il padre che esercita il proprio potere minacciando in continuazione di andarsene e la madre che, medico, deciderà all’improvviso di andarsene per davvero, tornando in quell’Algeria in guerra in cui le donne potevano essere toccate e curate solo da altre donne. Selma fuori casa beve, fuma, vede amici, frequenta feste e appartamenti in cui esplorare la vita e la libidine della sessualità, ma fra le mura di quella casa paterna in cui non può tornare oltre la mezzanotte è costretta a subire, a mentire, a litigare con i genitori anche per la scelta del proprio percorso scolastico senza nemmeno la possibilità di affrontare altri argomenti. Saranno proprio le sue esperienze di racconti erotici letti in riva al fiume e di baci lascivi scambiati di nascosto, la sua lussuria e il suo romanticismo, così come i suoi fraintendimenti e le sue gelosie, a porsi come fondamentali tappe attraverso le quali ribellarsi e lottare, giorno dopo giorno, per scoprirsi e diventare donna, per annullare le storture culturali, per ribaltare il dominio di un genere sull’altro. Saranno i viaggi in quell’Algeria che sente così profondamente sua e la preoccupazione pensando a una madre e una nonna in costante pericolo nella Cabilia bellica a far definitivamente crescere Selma. E sarà l’ultimo incontro con Julien in partenza per chissà quanto a farle capire come certi legami rimangano per sempre, nonostante tutto. Nulla di particolarmente originale, forse, ma di certo non mancano le lucide stratificazioni nel ragionare sulle diverse forme di società, non manca la potenza nel liberarsi delle catene, non manca una sincerità sconfinata nel raccontare e nel raccontarsi, come donna, come francese, come algerina. Basta assaporare ancora una volta un cigare au miel, perdersi nel suo sapore tradizionale sentendo il gusto delle proprie radici mai rinnegate, della propria terra, della propria essenza, ma questa volta con la consapevolezza di essere una persona completa, indipendente, emancipata, finalmente pronta alla vita. Senza più nulla da temere.
Marco Romagna