CHIME (2024), di Kiyoshi Kurosawa

Basterebbe forse il vento fra i capelli quando passa il treno della metropolitana. Basterebbe forse il rumore bianco del condizionatore d’aria, basterebbe forse la tenda che si muove leggermente sullo sfondo, basterebbe forse la sedia vuota con cui introdurre la soggettiva fantasmatica della vendetta e del senso di colpa, basterebbero forse i tagli di luce a contrastare il caldo e il freddo, basterebbe forse quell’angolo di muro a stringere il quadro e a caricare di inafferrabile inquietudine pure la prima e tranquilla cena di famiglia. Basterebbero quelle centinaia di lattine, che non hanno alcun senso di essere così numerose in così poco tempo ma che la moglie del protagonista Matsuoka, insegnante di cucina inevitabilmente destinato a conoscere l’inspiegabile e l’orrore, getta via con tutto lo stridore del loro alluminio a metà di ogni pasto. Basterebbero le lentissime carrellate verso l’imperscrutabile e l’uso straordinario dei campi e dei controcampi, fra quello che si vede e quello che rimane celato, fra quello che ci si aspetta e quello che si immagina, fra quello che si sa e quello che si intuisce, fra quello che si spera e quello che si teme. Basterebbero quelle lame concentriche di luce e lo smarrimento di quello sguardo perso nel vuoto, ad ascoltare chissà cosa, un suono, un rintocco, un richiamo, un messaggio di violenza, una voce, una possessione, «un urlo che però non è umano». Un carillon, forse. Magari proprio quello con cui si potrebbe tradurre il titolo originale Chime, con cui Kiyoshi Kurosawa presenta in prima mondiale alla 74ma Berlinale il suo nuovo e strepitoso mediometraggio realizzato per la piattaforma multimediale giapponese Roadstead. Un piccolo saggio di linguaggio e di messa in scena con cui il sempre più gigantesco autore nipponico delinea in appena 45 minuti quello che è forse il compendio teorico definitivo del j-horror e la summa del suo cinema, il confine sfumato fra realistico e soprannaturale, la portata simbolica e culturale dei fantasmi e del maligno, il brivido che scorre lungo la schiena fra la suspense e il colpo di scena, fra il campo e il fuori campo, fra l’evidente e l’enigmatico, fra le aspettative instillate nello spettatore e qualche inatteso e repentino cambio di direzione. Fra il puro genere e la riflessione su come mostrarlo o non mostrarlo, fra l’orrore, il thriller e lo sci-fi magari passando per il dramma umanistico e sentimentale di una famiglia che si distrugge. Fra CureJourney to the shore, fra Creepy e Wife of a spy, fra Penance e Daguerrotype, fra ForebordingSeventh code che nei suoi appena 60 minuti è probabilmente il lavoro precedente più vicino alla strabiliante economia narrativa di Chime. Fino a un prefinale meravigliosamente ambiguo, fatto di un coltello sul lavabo della cucina e di una scalinata hitchcockiana verso le camere da letto, ma soprattutto delle ellissi in cui decidere autonomamente quali siano i pezzi mancanti della narrazione, quale sia l’effettiva dimensione di una tragedia in ogni caso ormai inevitabile, quale sia l’effettivo limite fra l’immateriale di una possessione e la corporalità di sangue e dolore di vittime e carnefici. Tanto che non è certo un caso che, con l’ultima sortita in strada e nella luce prima di rientrare (definitivamente?) in una casa ormai maledetta, la pasta dell’immagine passi improvvisamente dalla pulizia del 4K digitale alla grana pesante del 16mm. Come se fosse l’immagine stessa – forma e contenuto, forma che è contenuto – a incarnare, e a rendere di nuovo percettibile, visibile e materico, quel corpo con o più probabilmente senza vita che il montaggio ha intelligentemente lasciato fuori dal quadro, e che in realtà conta solo relativamente se abbia (già) subito la furia omicida, perché il Male ha comunque ormai varcato la soglia, e non ci sarà più spazio alcuno per la speranza. Solo per la tensione, per l’allusione, per la perfezione assoluta di ogni inquadratura, di ogni movimento e di ogni stacco di montaggio nel mettere in scena una forza oscura e irrefrenabile come un misterioso delirio di sangue e sopraffazione, come un’epidemia di surreale furore a cui non si può in alcun modo resistere. Come il germe della follia.

«Non so che cosa mi abbia posseduto», dirà Matsuoka in uno dei colloqui di lavoro con cui cerca di abbandonare l’insegnamento per entrare come capo chef in un importante ristorante cittadino. Eppure è proprio quella possessione che sta progressivamente iniziando a mangiarlo e a modificarlo dall’interno a fargli (rin)negare le dichiarazioni d’orgoglio e di soddisfazione che ha sempre trovato nel suo lavoro. Quella stessa possessione arrivata all’improvviso e che lo porterà ben presto verso un delirio di arroganza e narcisismo per il quale perdere la fiducia ormai conquistata parlando al potenziale datore di lavoro solo di se stesso, e soprattutto verso l’inquietudine, la violenza, l’istinto omicida, la paranoia, la pazzia che emerge dal fondo degli occhi. Una possessione da principio vista in un giovane allievo progressivamente sempre più «strano», prima sadico nel tritare oltre misura le cipolle, poi pronto ad accoltellare anziché tagliare una torta, e infine suicida in mezzo alla cucina per dimostrare di avere una macchina impiantata nel cervello che lo controlla da remoto, e poi percepita dietro alle spalle, inafferrabile e inarrestabile, fra uno sguardo smarrito nel nulla e un altro che fa rabbrividire nella sua schizofrenia. Fino a quell’altra allieva che viene un’improvvisa e irrefrenabile voglia di disossare al posto del pollo che si rifiuta di toccare, e alla lama che quasi da sola si conficca nella sua schiena. Un vero e proprio contagio che si propaga attraverso un condotto d’areazione, un riflesso circolare quasi impercettibile, una luce pulsante che irrora il videocitofono, o forse semplicemente attraverso la frustrazione, da una cucina in realtà senza pressioni, fatta di corsi per dilettanti che vogliono maneggiare e preparare il cibo per calmare i nervi e non necessariamente per diventare grandi cuochi, fino alla strada, ai ristoranti (l’uomo che da un tavolo vicino parte senza alcun motivo apparente per cercare di uccidere un’altra sconosciuta avventrice), alle case, alle famiglie. Un Male assoluto che Kiyoshi Kurosawa rende lotta interna e dilaniante fra la parte razionale dell’uomo e l’istinto più animale, fra le regole di convivenza e la legge del più forte, fra la coscienza e la sopraffazione, fra il quotidiano e il surreale, ma soprattutto un brivido d’inquietudine costante, di manipolazione delle aspettative, di suspense confermata e disattesa, pronto a deflagrare da ogni singola inquadratura in tutto il suo turbamento. Con cadaveri già smaltiti che sembrano tornare come spettri (in)visibili a lezione, con poliziotti che si cerca di evitare e che invece si incontrano proprio subito fuori dalla porta e con una mano insanguinata, con brevi ellissi narrative e qualche controcampo mancante che lasciano germogliare le domande e il seme del dubbio. Con risate e grida che non svelano che cosa effettivamente il personaggio abbia visto, e con l’audio che improvvisamente si interrompe guardandosi allo specchio, già morti dentro anche se il corpo dovesse essere ancora vivo. Un breve film sospeso, come si diceva, fra il thriller, l’orrore e la fantascienza, girato in attesa di concludere Le chemin du serpent auto-remake francese dato in uscita per quest’anno con cui Kiyoshi Kurosawa riadatterà il suo film del 1998 Serpenth’s Path, che rilegge e spesso ribalta le regole dell’intero horror non solo giapponese preferendo la tensione alla paura, il bisbigliato all’urlato, il suggerito al mostrato, e che gioca apertamente con il percettibile e con il fuori campo, con il credibile e con il parossistico, con il razionale e con l’incomprensibile. Un viaggio nel misterioso e nell’ancestrale, nella perdita di controllo, ma soprattutto nelle soluzioni linguistiche, visive e narrative del cinema, nelle sue infinite possibilità, nel suo senso di scoperta e continua meraviglia, che dai tempi di Méliès si rinnova in ogni profondità dell’immagine, in ogni ombra appena percettibile nel suo passaggio, in ogni dettaglio fuori fuoco, in ogni istante di ipnosi e di magia. L’unico demone di cui non si deve aver paura, ma anzi dal quale è ogni volta bellissimo lasciarsi dolcemente possedere e portare via, verso emozioni, gioie, paure e suggestioni che magari saranno già nascoste in qualche anfratto nell’inconscio, ma che solo l’arte cinematografica sa e può fare emergere, rendendole reale autocoscienza.

Marco Romagna