“Know a couple niggas that’s down to ride for a homicide
When it’s drama time
Run up on a nigga with the llamas flyin
Leave his loved ones all traumatized
One-fifty I’m really wit’ it
I’ll drop his ass and then forget it
I’m the man round my side of town
Might see a bitch and forget I hit it”
Nicky Minai, Chi-Raq
No, non è una questione di capacità. E nemmeno una questione di contenuti, comunque opinabili nel portare la Lisistrata di Aristofane -commedia che teorizza ironicamente lo sciopero del sesso attuato delle donne nei confronti dei propri mariti fino a che non finiranno le guerre- nell’infernale violenza urbana della comunità nera di Chicago e nelle sue gang rivali. Quello che rende inaccettabile Chi-Raq, nuovo film di Spike Lee presentato in prima internazionale alla Berlinale 2016, è piuttosto l’approccio del regista afromericano nei confronti della sua stessa gente: un approccio freddo, calcolato, insopportabilmente retorico nel sostituire il più squallido stereotipo al cuore pulsante di fronte alla tragedia quotidiana. Un approccio, del resto, nel quale la stessa comunità black di Chicago non si è in alcun modo riconosciuta, attaccando il film per la banalizzazione irrispettosa dei drammi intestini che devono vivere ogni giorno. In un Festival che ha relegato il sublime Ta’ang di Wang Bing nella sezione Forum, film che rifiuta la pietà per tuffarsi nel più sincero amore, fa male vedere un film del genere proiettato e mediamente apprezzato nel ben più frequentato fuori concorso, dove i lustrini e i fari dell’attenzione mediatica stonano paradossalmente ancor di più con quello che Chi-Raq stesso vorrebbe rappresentare. Spike Lee è, prima di tutto, un nero furioso, con alla base tutte le ragioni del mondo per esserlo. Nel corso della sua carriera si è più volte posto come paladino di un’intera comunità che ancora soffre episodi di razzismo, che ancora è relegata nelle periferie più sporche, che ancora, a dispetto di una legislatura che giura uguaglianza e di Barack Obama alla Casa Bianca, non riesce a raggiungere i diritti sociali ed economici che ha invece un bianco americano. Una comunità devastata da droga, criminalità organizzata, omicidi e violenza. Motivazioni pienamente legittime, quelle di Spike Lee, ma talmente radicate da portarlo spesso a una sorta di altrettanto inaccettabile quanto paradossale razzismo di ritorno: dai ripetuti e folli attacchi a Quentin Tarantino, reo secondo Lee di cimentarsi nella blaxploitation senza in sostanza averne diritto, fino a quelli ben più radicati e condivisibili all’Academy che premierebbe solo film “bianchi”, il regista nativo di Atlanta ha più volte mancato clamorosamente i destinatari delle sue invettive, confondendo l’uguaglianza con una forma ebbra e smodata del black power, facendo emergere un vero e proprio odio nei confronti dei bianchi, confondendo il rispetto con un’aura di superiorità che sembra uno specchio rovesciato attraverso il quale vedere ribaltate le stesse vergognose idee che furono del Ku Klux Klan.
Chi-Raq è la crasi fra Chicago e Iraq, il meticciamento fra i troppi morti urbani e quelli al fronte, la sintesi che indica, quasi inevitabilmente, neri che ogni giorno uccidono altri neri. Spike Lee decide di costruire sul plot della commedia di Aristofane una sorta di musical fra rap e hip hop, goffo tentativo di declinare tutta la comunità nera nei propri ritmi e nella propria cultura che risulta insopportabilmente stereotipato, facendo cadere il regista nella trappola del kitsch con la pesante sovrastruttura che prevede solo dialoghi in rima. È come se i protagonisti fossero sempre a poetare e cantare, mentre fanno sesso, mentre si sparano e uccidono, mentre parlano di politica: una totale mancanza di rispetto e di sentimenti, con il suo apice in una madre che si mette a rappare prima davanti al cadavere del figlio morto ammazzato in mezzo alla strada, e poi lavando via il suo sangue dall’asfalto. Una totale mancanza di cuore, un totale sprezzo nei confronti dei personaggi in virtù di una spettacolarizzazione forzata e disumana, una costruzione a tavolino che si occupa dei numeri dei morti e non degli uomini associati a queste impietose cifre, alle loro famiglie, alle loro vite spezzate da un’auto in corsa dalla quale spunta una pistola. È un problema di approccio, dicevamo, ancora prima che di contenuti, è una visione del mondo ormai distorta dalla propria popolarità e dal proprio ruolo di santone, è un gioco atroce che porta Spike Lee a pensare al simbolo e non all’uomo, affogando tutte le buone (?) intenzioni alla base del film in uno sguardo cinico, crudele, inaccettabile. Potremmo poi parlare di quanto Chi-Raq sia inutilmente didascalico ai limiti della lezioncina nel mettere sul piatto cifre e dati anziché metafore e paradigmi, di quanto Chi-Raq sia insopportabilmente ipocrita nel negare o quasi l’esistenza di soldati anche bianchi al fronte, di quanto Chi-Raq sia scontato e retorico nel parlare di come le guerre servano all’America per rimpolparne l’economia a costo di mandare a morte i propri figli. Come potremmo parlare dell’unico bianco messo in scena, un John Cusack votato al sacerdozio che tuona banalità dal proprio pulpito, come potremmo parlare di un avulso Samuel L. Jackson a metà strada fra un Cicerone e un coro greco che forza ulteriormente e sempre in rima la narrazione e le idee politiche alla base. Ma sarebbe inutile, perché per noi il film era già finito molto prima. Finito in uno sguardo drammaticamente antietico, finito in una visione furbetta e parziale della realtà, finito in uno stereotipo linguistico che anziché esaltare la comunità nera americana finisce al contrario per ridicolizzarla e disumanizzarla nel disprezzo verso tutto e tutti e con uno stile che, piuttosto che un film, sembra fare il verso all’introduzione di GTA. Musical rap pretenzioso e pretestuoso, Chi-Raq è per molti motivi un film impresentabile, saturo di un’ironia fuori luogo, freddo e acidulo di fronte alla tragedia, e neanche tanto velatamente razzista. Per noi, che invece all’uguaglianza vogliamo credere fino in fondo come valore innegabile, non resta che aspettare di dimenticarlo, rituffandoci nei registi che, ancor prima di essere grandi Autori, sanno dimostrare di essere uomini.
Marco Romagna