CHEVALIER (2015), di Athina Rachel Tsangari
Un anello Chevalier: ecco cosa c’è in palio per il vincitore di una gara tra marinai più o meno virili nel mezzo del Mar Egeo, che decidono di giudicarsi a vicenda in ogni caratteristica possibile (postura, salute, aspetto, dimensioni del membro, coraggio, capacità fisica, eccetera) per decidere chi è “il migliore in assoluto”. Tra il cameratismo e il maschilismo necessari di questo piccolo nucleo di operai imborghesiti fino alla noia, il divertissement della Tsangari è una commedia corale al maschile appartenente alla corrente della New Wave del cinema greco, a cui appartengono autori (la minuscola non è casuale) come Lanthimos (Kynodontas, 2009) o Avranas (Miss Violence, 2013).
Questa ondata nel panorama greco troppo poco ricollegato allo stesso unico autore (ovvero Theo Angelopoulos) ha portato all’unificarsi di uno stile ben riconoscibile e che spesso fa incetta di premi ai Festival: uno stile asettico, vuoto, freddo, spesso indifferente o deleterio. E a questo stile discutibile apparteneva il primo film della Tsangari, Attenberg (2010), storia di una giovane che vive con il padre malato di cancro incapace di relazionarsi agli altri esseri umani eccetto che per un’amica che le fa lezioni di educazione sessuale. Il poster più celebre di Attenberg, che tutto sommato, pur girando a vuoto per la completezza della sua durata, è tra i film meno insopportabili della categoria, mostra in primo piano lo slinguazzare tra la protagonista e l’amica, che in realtà è uno degli aspetti meno interessanti e studiati all’interno di un film prevalentemente esistenzialista. Questo sottolinea un aspetto abbastanza tragico del nuovo cinema greco: l’esibizionismo gratuito della sessualità, che mette in secondo piano i concetti più alti a favore di una provocazione fine a sé stessa, almeno di facciata (e questo pure, soprattutto, nell’offensivo Leone d’argento 2013 Miss Violence). A vedere il poster, Chevalier sembra dover soffrire degli stessi difetti dei suoi simili: protagonista della locandina è un timone ligneo le cui razze sono a forma di peni. Sembra proprio che, almeno nell’apparenza e nella distribuzione più d’impatto, sia sottolineato che Chevalier è un film che veicola il sesso come o peggio dei film precedenti, ma la sorpresona è che non è così, e che anzi il sottotesto sessuale è presente solo in un paio di scene. In compenso, stilisticamente ed eticamente, è molto più osceno e inutile di qualsiasi film della nuova ondata greca.
Con una regia profondamente televisiva e un senso dell’umorismo irricevibile (ma che, per qualche ragione, ha fatto scoppiare la sala intera in risa rumorose fino al cacofonico), Chevalier potrebbe sembrare un piatto giochino metanarrativo fine a se stesso, ma purtroppo è molto di più. E qui ci si potrebbe soffermare sull’inutilità stancante della regia sfocata e disinteressata, sulla carenza di ritmo o addirittura su cosa ha di diverso rispetto ad un Attenberg o un Kynodontas, però è più giusto dedicarsi a qualcosa che troppo poco spesso sembra essere di nostro interesse: le implicazioni etiche della trama, della narrazione. Alla fine il film parla di una gara a chi è il migliore e non narra altro che questa gara, questo giochino, senza neanche fare una vera e propria analisi sociologica ma anzi cercando una specie di stupida morale ricavata con divertimento e leggerezza – e senza quell’approccio praticamente chirurgico a cui ci ha più abituato Lanthimos. Il problema è proprio la morale, ovvero che giudicandosi a vicenda si trovano la comunione e la fratellanza. Ma sono comunione e fratellanza che escono dal sangue e dalla sofferenza di essere i perdenti e di essere i peggiori. Perché qualcuno migliore c’è sempre, nella triste avventura che è la vita. Insomma, l’idea è che il costante e necessario complesso di debolezza vissuto con vittimismo dagli esseri umani dall’alba dei tempi deve essere vissuto in maniera positiva, sopportando chi è “migliore di noi” e convivendoci – andando quindi agli antipodi di ogni visione romantica dell’idea di tolleranza o di comunismo, andando agli antipodi dell’idea del cinema che unisce e rivoluziona. È un film-(anti)uomo, non un film-fiume, un film-ego e non un film-tutto. Una commedia estremamente drammatica – perché una concezione così offensiva dei rapporti tra esseri umani al giorno d’oggi è quanto di più inaccettabile. Un film disonesto, insensibile, che da un pulpito sopraelevato lancia odio e anatemi contro i propri personaggi. Da parte nostra, ci teniamo ben stretta la straziante umanità di Alberto Grifi ed Ed Pincus.
Nicola Settis